lunedì 16 aprile 2012

Straniamento e pluripersonalità

Cerco, ora, di analizzare un'opera teatrale per mostrare come anche questa arte possa contribuire ad un ampliamento delle nostre possibilità conoscitive e ad un'implementazione delle categorie che utilizziamo per interpretare il mondo. L'opera di cui voglio parlare risale al 1926 ed è di Bertolt Brecht, si intitola Mann ist mann (Un uomo è un uomo). Anche questa commedia, basata sul racconto delle trasformazioni che subisce la mente di un uomo, il protagonista Galy Gay, porta con sé un immenso bagaglio di categorie interpretative, varie e a volte contrastanti, ma tutte utili ad ampliare la nostra conoscenza del reale. Mostra, infatti, come la stessa presunzione che ogn'uno di ha rispetto alla propria unica e individuale personalità sia una presunzione falsa e nulla più, sia una credenza che può facilmente essere smontata e rimontata senza troppi giri di parole. La personalità, così viene in genere definita questa pratica della mente, può essere montata e rimontata, costruita e decostruita, può cambiare e mostrarci che ciò che prima vedevamo bianco è in realtà nero e che l'ottica che ci consentiva la precedente visione del mondo è diversa rispetto quella attuale. Brecht in un periodo precedente alla stesura dell’opera aveva già anticipato il personaggio di Galy Gay, questo compare per la prima volta sotto il nome di Galgei, un soggetto che ha qualcosa di barbaro, la rappresentazione di un ammasso di carne che, per la sua mancanza di un centro, subisce ogni sorta di trasformazioni, così come l’acqua si adatta a ogni tipo di recipienti. Il barbaro e impudico trionfo di una vita insensata, che cresce rigogliosamente in ogni direzione, utilizza ogni formato, non risente di alcuna riserva. L’opera è ambientata a Kilkoa, in India. Galy Gay, un povero scaricatore di porto irlandese, esce di casa per comprare del pesce per sé e per sua moglie, e per strada fa la conoscenza di tre soldati inglesi che, avendo perso il loro quarto compagno, devono trovare a tutti i costi qualcuno che lo sostituisca. Da ora in avanti si mette in moto un curioso ed affascinante processo per trasformare Galy Gay in Jip, questo il nome del soldato mancante. Un processo a cui egli si sottopone fin troppo di buon grado, in vista di un compenso, giungendo persino a rinnegare sua moglie. Per irretirlo e legarlo meglio a loro, i soldati lo convincono a vendere un elefante finto, fatto di materiale di proprietà dell’esercito, lo accusano di truffa, lo condannano ad una finta esecuzione e lo riducono al punto di fargli recitare, dopo aver rinunciato al suo passato e al suo nome, un’orazione funebre sul presunto cadavere del suo “io” di una volta. Così completa è la trasformazione di Galy Gay in Jip che egli diventa un’efficiente macchina da combattimento ed espugna tutto da solo la fortezza di El-Dschur. Quando finalmente ritorna il vero Jip, non viene riconosciuto, e diventa Galy Gay. Al di là della stupenda e perfetta composizione, sia della scena che dei testi, i n questo capolavvoro di Bertolt Brecht, ciò che mi interessa evidenziare  è l’elemento della trasformazione affiancato dal cambiamento improvviso e velocissimo della personalità che anima la commedia: l’uomo è trasformabile; purtroppo, però, questa trasformabilità è negativa. Inoltre, oltre ad essere trasformabile l'uomo si trasforma allo stesso modo la visione e la concezione che egli ha del mondo, offrendo, così, due alternative all'interpretazione del reale. Galy Gay si lascia manipolare come cera da forze esterne che fanno di lui ciò che vogliono, trasforma il suo nome, la sua vita, la sua personalità e con essi anche le categorie che utilizza per pensare e guardare il mondo.
Galy Gay, si lascia di buon grado trasformare come vuole la società e  questo plasticismo caratteriale è sotteso a mostrare come insieme alla personalità cambiano, si ampliano o si riducono questo è un giudizio personale, quelli che precedentemente erano i suoi punti fermi tramite i quali vedeva e pensava la realtà, le categorie che gli consentivano una ben determoinata visione della realtà. Cambiando le categorie, cambia il mondo, cambia la vita e cambia la persona.
Un uomo lo si può rifare in continuazione, montare e smontare come un’automobile. E non è solo Galy Gay ad essere trasformabile: tutto è trasformabile nel mondo, il terreno su cui poggiamo e così anche noi stessi. Tutto è trasformabile perché tutto ha diverse possibilità interpretative, strettamente connesse con le infinite angolature prismatiche da cui osservare il reale. L’uomo, dunque, è come una macchina: si può smontare e rimettere assieme; è come un oggetto in una catena di montaggio. La vita su questa terra è una cosa pericolosa, e la proprietà più pericolosa è l’individualità. Così Galy Gay finisce per essere sepolto come l’ultimo individuo. Egli arriva persino a pronunciare la sentenza di morte della propria individualità. Ma, in fondo, cosa importa? Fra il “si” e il “no” non c’è una differenza tanto grande. L’uomo in qualsiasi forma è un che di fruibile; questo “io” o l’altro “io” è una questione incerta. Specie se, come osserva Galy Gay, ci si sente più a proprio agio nella nuova carne. Contemporaneamente a Mann ist mann Brecht compose una farsa L’elefantino che avrebbe dovuto costituire una sorta di entr’acte da rappresentarsi durante l’intervallo nel foyer del teatro. L’intermezzo enuncia una delle raccomandazioni preferite di Brecht per chi apprezza il buon teatro: fumate, bevete e fate scommesse durante la rappresentazione, cioè fate pure le stesse cose che fareste in una birreria o in uno stadio. Le battute sono scambiate tra il pubblico e gli attori che interpretano la madre dell’elefantino, l’elefantino, la luna e un banano. L’elefantino è accusato di aver trucidato sua madre con la pentola del latte ma lo stesso animale, che in questa farsa rappresenta Galy Gay, sostiene a sua volta di aver infranto la pentola del latte non sulla testa della madre bensì contro una roccia. In questo serrato gioco farsesco, interrotto di tanto in tanto dalla chiassosa soldataglia, la prova che l’elefantino è colpevole viene ottenuta obbligando l’elefantino a tirare l’elefantessa fuori da un cerchio tracciato con il gesso, dimostrando così di non essere suo figlio. Ho introdotto anche questo particolare per evidenziare ancora una volta come il gioco che viene costruito dall'autore in questa opera sia in realtà non solo un gioco teso a mostrare come sia semplice cambiare la personalità dell'individuo, ma anche come questo cambiamento si basi su di un cambiamento più radicale, che riguarda la visione totale del mondo che un individuo acquista nel corso della sua vita e che può essere tale soltanto in virtù di specifiche categorie che consentono determinate classificazioni. L'elefantino da figlio diviene assassino, e questo non perchè è veramente l'assassino, ma perchè il processo di visione prospettica con la quale interpreta il reale è messo in discussione dalle persone che lo circondano, fino al punto da fargli acquisire parte del loro stesso bagaglio categorico, finendo così di convincerlo ad identificarsi con l'assassino.
Per tornare a Mann ist mann, quest’opera, mostra come l’io, da tanto tempo esaltato dai romantici e dagli espressionisti, è morto. La personalità e l’individualità sono diventate delle finzioni. Eppure il collettivo è fraudolento come l’individuale, perché inganna sia chi agisce sia chi subisce l’azione. Galy Gay rinnega non solo se stesso ma tutto e tutti. Allo stesso tempo però in cui si afferma che l'individualità e il relativismo ad essa collegati siano morti, siamo obbligati ad interrogarci su chi ne abbia preso il posto. Se l'io non esiste più, chi fa le sue veci, chi guida la mia vita, chi interpreta la realtà? Se non io chi può fare tutte queste cose? Si dice che l'io è morto, ma chi sono io? Non di certo la società, ma un singolo, quindi sono io che vedo, parlo e penso del mondo e della realtà. Ma allora l'io esiste? E se abbiamo appena detto che l'io è morto, che l'individualità è cosa superata, possiamo mai contraddirci affermando, ora, che l'io esiste? Io è anche visione individuale e categorizzazione del mondo. Affermare che l'io non esiste significa sostenere che non c'è una visione individuale della realtà che risulta propria di ogni soggetto. Sostenere che l'io non esiste significa superare la tendenza ad interpretare univocamente le cose e la realtà.
O forse ci sono infiniti modi di pensare a questo io e soltanto tutti insieme formano la visione dell'individuo e della realtà?
Continuare sulla strada dell'implementazione prospettica, in questo contesto in cui nulla risulta davvero stabile e assiomatico, è l'unica via che può aprirci le porte ad una conoscenza più affidabile e meno lacunosa.





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