«Come
possiamo conciliare la nostra concezione di noi stessi e della realtà
umana con ciò che, a livello più profondo, conosciamo della realtà
grazie alla fisica e alla chimica? Come è possibile che, in un
universo composto interamente di particelle fisiche immerse in campi
di forza, possono esservi cose come la coscienza, l’intenzionalità,
il linguaggio, il libero arbitrio, la società, l’etica, l’estetica
e gli obblighi politici?». «La nostra spiegazione della mente, in
tutti i suoi aspetti – la coscienza, l’intenzionalità, il libero
arbitrio, la causalità mentale, la percezione, l’azione
intenzionale, ecc. – è naturalistica in questo senso: in primo
luogo tratta i fenomeni mentali come parte della natura. Dobbiamo
considerare la coscienza e l’intenzionalità come aspetti del mondo
naturale quanto la fotosintesi e la digestione. In secondo luogo,
l’apparato esplicativo usato per fornire una spiegazione in termini
causali dei fenomeni mentali è necessario per spiegare la natura in
generale. Il nostro tentativo di spiegare i fenomeni mentali si
esprime a livello biologico, e non, per esempio, a livello di fisica
subatomica. La ragione di ciò è che la coscienza e gli altri
fenomeni mentali sono fenomeni biologici: sono creati da processi
biologici e sono specifici di certi tipi di organismi biologici».
In fin dei
conti, non assistiamo alla presenza e all’analisi di due mondi
differenti, uno relativo alle entità fisiche e l’altro relativo
alle entità mentali, ma siamo sempre di fronte all’unico mondo
realmente esistente, quello naturale ed è soltanto nei confronti di
questo unico mondo che possiamo individuare diversi atteggiamenti
mentali con i quali osservarlo; solo così ci risulta possibile
indagare i vari aspetti – linguaggio, mente e società – che
costituiscono parti tra loro intrinsecamente legate di questa unica
realtà. Il realismo ingenuo di Searle funge da trampolino di lancio
per la concezione di una realtà che esiste indipendentemente dalla
nostra mente e che necessita sempre di una chiarificazione biologica
e naturale. Dando così un’immagine del mondo unitaria, un’immagine
del mondo con la quale ogni essere umano è capace di confrontarsi
per poi individuare aspetti quotidiani della sua esistenza. Ciò che
ci interessa realmente mostrare è la vera e propria filosofia della
mente di Searle, una filosofia che parte dalle critiche ai concetti e
alle categorie tradizionali, e che ci presenta una nuova veste per la
coscienza, l’intenzionalità e le relazioni sociali.
Sarà
proprio il concetto di mente cosciente, una mente che come entità
biologica e naturale produce una coscienza ugualmente biologica e
naturale, a presentarci la possibilità di distinguere tra
un’ontologia in prima persona ed una in terza persona; una
distinzione che risulta fondante per l’analisi degli stati
intenzionali, siano essi privati o collettivi e che, dunque, ci apre
anche la strada per una nuova concezione dei rapporti
interindividuali.
Schematicamente
possiamo dividere questo riassunto completo della speculazione di
Searle in alcuni centri focali rilevantissimi che fungono da punti di
intersezione e luoghi di incrocio delle varie analisi svolte dal
nostro. Possiamo iniziare a definire la speculazione di Searle solo a
partendo dalle varie critiche che rivolge alle formulazioni della
filosofia della mente contemporanea, possiamo, poi, passare a
presentare la concezione che questo pensatore ha della mente; una
concezione che egli stesso definisce naturalismo biologico.
Un aspetto
che non può essere trascurato e che quindi costituisce il secondo
centro dell'analisi sulla speculazione di Searle, è la differenza
che egli stabilisce tra i due approcci ontologici che si hanno
rispetto ai metodi di analisi delle scienze e ai metodi che
analizzano la mente. Secondo Searle, l’approccio che considera
valido esclusivamente il punto di vista in terza persona è
caratteristico delle scienze forti come la chimica, la fisica, la
biologia, questo non può annoverare tra i suoi oggetti di studio
entità che hanno un’ontologia soggettiva, come la mente e la
coscienza; ed è per questo che egli rivendica la necessità, per
quanto riguarda gli eventi mentali, linguistici e sociali, di
un’analisi che non tralasci le particolarità che accompagnano
l’essenza di ogni uomo. L’analisi della mente non può, in altre
parole, eliminare entità come la coscienza e l’intenzionalità
unicamente richiamandosi ad un approccio scientifico ed in terza
persona, una simile mossa ci porterebbe ad una totale perdita di
contatto con la realtà umana, una realtà fatta di pensieri
soggettivi e di entità, come l’intenzionalità e la coscienza, che
solo da un punto di vista in prima persona possono chiarire il loro
senso, la loro formazione e il loro scopo.
Uno spazio
importante sarà dedicato alla trattazione delle differenti forme
dell’intelligenza artificiale, cosa che rende il nostro conosciuto
e apprezzato dal punto di vista internazionale ma che non lo salverà
dal ricevere dure critiche. Searle introduce una netta distinzione
tra forma debole e forma forte di intelligenza artificiale. Il punto
conclusivo della critica che Searle rivolge alla versione forte
dell’intelligenza artificiale è che soltanto esseri capaci di
significazione sono in grado di avere una vera e propria attività
cosciente. Per mostrare ciò egli ricorre al rinomato argomento della
stanza cinese.
Per
concludere, non possiamo esimerci dal presentare un'analisi
dell'intenzionalità, analisi che fungerà da anello di giuntura con
concetti come collettività, società, potere. È, infatti, solo a
partire dall’analisi dell’intenzionalità, prima nella sua forma
privata poi nella sua forma collettiva, che possiamo presentare e
chiarire il concetto di attribuzione di funzioni di status, di regole
costitutive e di realtà istituzionale; concetti, questi, che sono
alla base della società umana e delle relazioni interindividuali e
di potere che in essa si costituiscono. Possiamo affermare che Searle
in realtà, durante tutta la sua carriera di pensatore analitico, ha
scritto un unico libro; un libro che parte dall’analisi del
linguaggio e che, passando dall’analisi della coscienza e
dell’intenzionalità, giunge alla chiarificazione della società e
della razionalità umana. Possiamo dire, insomma, che lo scopo
dell’immenso lavoro di Searle è la realtà in quanto tale, in
tutte le sue pieghe e in tutte le sue manifestazioni.
Con la sua
speculazione Searle ci fornisce l’immagine reale di un uomo di
fronte a se stesso e alla sua vita, l’immagine di un uomo che altro
non è se non la realtà della sua vita naturale. Spinta propulsiva
in una simile selva di pressanti problemi è la ricerca della realtà;
una realtà unica e sfuggente, una realtà apparentemente in alcuni
aspetti soggettiva ed in altri oggettiva, una realtà cui soltanto un
essere dotato di mente/cervello, come solo l’uomo è, può dare un
senso ed una direzione.
«L’opposizione
tradizionale che tendiamo a tracciare tra biologia e cultura è
altrettanto fuorviante di quella tra mente e corpo. Così come gli
stati mentali sono caratteristiche di livello superiore del nostro
sistema nervoso, e di conseguenza non c’è opposizione tra il
mentale e il fisico, in quanto il mentale è semplicemente un insieme
di caratteristiche fisiche del cervello a un livello superiore di
descrizione rispetto a quello dei neuroni; così non c’è
opposizione tra cultura e biologia: la cultura è la forma che prende
la biologia». Dunque, anche le riflessioni sulla cultura e sulla
società si richiamano all’idea fondante di tutta la sua indagine,
per cui non esiste che un unico mondo, quello biologico e naturale,
in cui fenomeni come la coscienza, l’intenzionalità, la socialità,
il potere, non sono altro che fenomeni biologicamente definibili e
che soltanto da una simile definizione possono acquisire senso.
Soltanto la
comprensione del reale funzionamento biologico del cervello sarà in
grado di aprirci alla comprensione di un fenomeno altrettanto
naturale come quello della nostra mente. In essa stati intenzionali,
coscienza e socialità, appariranno in fine come entità
esclusivamente biologiche e naturali che soltanto una spiegazione
biologica e naturale potrà chiarire. Una spiegazione, questa, che
risulta l’unica spiegazione reale e plausibile per processi che non
fanno appello a nulla che vada al di la delle loro componenti
biologiche e delle loro implicazioni naturali.
«Non esiste
un mondo scientifico. Non esiste che il mondo, e ciò che proviamo a
fare è descrivere come funziona e come noi ci collochiamo in esso.
Per quanto ne sappiamo, i suoi principi fondamentali sono individuati
dalla fisica atomica e, per la piccola parte che ci riguarda, dalla
biologia evolutiva. Noi non viviamo in molti – ma nemmeno in due –
mondi diversi: un mondo mentale ed un mondo fisico, un mondo
scientifico ed un mondo del senso comune. Non c’è che un unico
mondo: è il mondo in cui tutti viviamo, e dobbiamo spiegare come
esistiamo in quanto parte di esso».
Coscienza e
naturalismo biologico
La filosofia
della mente, all’alba della sua nascita, viene presentata come
evoluzione necessaria degli studi che pretendevano di chiarire la
nascita e lo sviluppo del linguaggio; dunque, come accade anche nella
riflessione di Searle, la filosofia del linguaggio sarà la strada
che aprirà le porte alla filosofia della mente per fare di questa la
base per la chiarificazione della stessa filosofia del linguaggio.
I vari
approcci alle riflessioni sulla mente e sul mentale si possono
schematicamente presentare come scissi in due grandi filoni: il
monismo, con le sue varianti idealiste e materialiste, ed il
dualismo, a sua volta diviso in due filoni portanti, ovvero il
dualismo di sostanza ed il dualismo di proprietà.
«La storia
della filosofia della mente degli ultimi cent’anni è in gran parte
costituita dal tentativo di sbarazzarsi del mentale dimostrando che
non esiste alcun fenomeno mentale oltre ai fenomeni fisici». Questo
è il risultato ambito dal materialista che per raggiungerlo
tralascia categorie fondamentali come la coscienza e
l’intenzionalità. Il problema, secondo Searle però, è dare una
spiegazione materialistica completamente soddisfacente della mente
che non finisca per negare il fatto ovvio che noi siamo
intrinsecamente dotati di stati coscienti e di stati intenzionali.
Nonostante
le apparenze, tutto il dibattito che ha distinto la filosofia della
mente negli ultimi cinquanta anni si è articolato esclusivamente
attorno al tema del rapporto mente-corpo.
A questo
punto è evidente l’avversione di Searle al materialismo,
un’avversione che lo ha spinto a negare la validità delle varie
forme che il materialismo ha assunto nella storia (comportamentismo,
fisicalismo, teoria dell’identità, eliminativismo); «intendo
infatti insistere senza posa sul fatto che è possibile accettare le
semplici verità della fisica – ad esempio che il mondo è
interamente costruito da particelle fisiche in campi di forza –
senza per questo negare i dati che emergono dall’esperienza
individuale – ad esempio che tutti noi siamo coscienti e che i
nostri stati coscienti hanno specifiche proprietà fenomenologiche
irriducibili».
L’intera
discussione nasce dalla falsa assunzione secondo cui, se si ammette
che la realtà è spiegabile interamente in termini fisici, non si
può contemporaneamente ammettere che in essa trovano posto stati
soggettivi, ovvero stati qualitativi, privati, immateriali, non
fisici, soggetti a stimoli e coscienti, come ad esempio i pensieri e
i sentimenti.
Il
materialismo, curiosamente, finisce per ereditare le peggiori
assunzioni del dualismo, sia quando nega che vi siano due tipi di
sostanze nel mondo, sia quando nega che vi siano due tipi di
proprietà, esso accetta, in realtà e senza accorgersene, le
categorie e il lessico del dualismo e le stesse coordinate entro cui
Cartesio impostò ai suoi esordi questo dibattito.
Per trarre
una conclusione sulla posizione searleana possiamo dire che il
celebre problema mente-corpo, dal quale per più di duemila anni sono
scaturite tante controversie, ha una semplice soluzione che è a
disposizione di qualunque persona di cultura da quando, circa un
secolo fa, si cominciarono a svolgere ricerche serie sul cervello.
Questa posizione, che viene definita da Searle naturalismo biologico,
afferma che i fenomeni mentali causati dai processi neurofisiologici
cerebrali sono a loro volta proprietà del cervello. Gli eventi e i
processi mentali sono parte della nostra storia naturale, così come
lo sono la digestione, la mitosi, la meiosi e la secrezione di
enzimi. Searle afferma esplicitamente che la sua «etichetta per
questa concezione è “naturalismo biologico”: “naturalismo”
perché, da questo punto di vista, la mente è parte della natura, e
“biologico” perché il modo di spiegazione dell’esistenza dei
fenomeni mentali è biologico – da opporre, per esempio, a
computazionale, comportamentistico, sociale o linguistico».
Di per sé
il naturalismo biologico solleva un gran numero di interrogativi, e
non ci si può arrogare il diritto di rispondere ad essi armandosi
dell’univocità del materialismo. Questi sono gli interrogativi
che, agli occhi di Searle, devono dar da pensare ai filosofi della
mente, e per questa finalità pretendere di accettare a-priori una
visione materialistica, solo apparentemente supportata
dall’oggettività scientifica, significa minare alle basi la stessa
speculazione sulla mente e porre i presupposti per il suo effettivo
allontanamento dalle realtà umana. Solo un punto di vista
naturalistico e biologicamente motivato può darci gli strumenti
necessari per affrontare questi interrogativi e aprirci la via
maestra per arrivare alla soluzione di questi annosi problemi.
Un’analisi
della mente e del mondo naturale che pretenda di giungere
all’oggettività scientifica non può non tener presente le
caratteristiche soggettive che si associano al fenomeno
dell’esperienza individuale e che non per forza pregiudicano la
possibilità di un’analisi scientifica della mente.
Il classico
problema mente-corpo, è una questione centrale. Searle sostiene che
sia la mente che il corpo sono fenomeni naturali e biologici, lo
studio dei quali pretende sia l’utilizzo di un’ontologia
soggettiva che di un’ontologia in terza persona e quindi più
oggettiva. Il mondo, dunque, è unico, è sia mondo umano che mondo
naturale; pretendere di separare gli aspetti umani dagli aspetti
naturali non può far altro che portarci ad un’eterna confusione e
precluderci una reale comprensione dell’unica realtà che tutti
viviamo.
Negli ultimi
anni il tema della coscienza è tornato prepotentemente al centro
degli interessi degli studiosi. Ciò non sorprende per almeno due
motivi: da un lato, abbiamo assistito ad un fiorire di indagini
empiriche, rese possibili dallo sviluppo di nuove metodologie,
dall’altro il dibattito filosofico sembra aver individuato nella
discussione sulla coscienza l’ultimo bastione dell’assalto che il
riduzionismo muove alle posizioni che in svariati modi difendono
l’idea dell’autonomia del mentale. Quasi tutti gli studiosi che
si occupano della questione sembrano condividere l’adesione
all’approccio naturalistico, anche se, come vedremo, per Searle il
loro naturalismo riduzionista è un colossale errore. Infatti, la
parola naturalismo risulta già ambigua di per sé: nella sua forma
più cruda essa equivale a sostenere che tutti i problemi filosofici
derivanti dalle indagini sulla mente possano essere risolti entro la
cornice delle scienze naturali attuali, ovvero, con l’approccio
naturalistico tradizionale si tenderebbe, secondo Searle, a eliminare
la coscienza e tutto il resto dei fenomeni mentali unicamente a
favore di un approccio, per così dire, scientifico e materialistico.
Searle
riguardo a questa questione sostiene che «includendo le leggi
naturali nella descrizione dell’universo fisico (e devono essere
incluse perché ne sono parte costitutiva) l’esistenza della
coscienza segue come conseguenza logica di tali leggi».
Ci sono due
tipi di coscienza: il primo tipo è la coscienza fenomenica, ovvero
l’esperienza soggettiva in prima persona, associata al possesso di
stati qualitativi, di un punto di vista, di una prospettiva. La
coscienza fenomenica designa in questo senso quel campo di realtà
che costituisce l’esperienza di soggetti viventi, considerata, per
così dire, in sé stessa, nella sua natura qualitativa e intrinseca.
Il secondo tipo di coscienza potrebbe essere definito coscienza
cognitiva e riguarda il costrutto teorico di una scienza della mente
che, per esempio, concepisce gli stati mentali come la base interna
del comportamento, ovvero come un insieme di fenomeni che è
rilevante per la genesi causale e la spiegazione del comportamento.
Le proprietà
cognitive della coscienza sono così individuate facendo riferimento
a proprietà oggettive di sistemi cognitivi. Le scienze cognitive e
le neuroscienze contemporanee hanno sì proposto articolati modelli
della coscienza psicologica, ma appaiono ben lontane dall’avere
affrontato e risolto i problemi posti dall’analisi della mente
fenomenologia; sembra che il punto finale delle spiegazioni sulla
mente preveda, quasi sempre, una sua eliminazione.
Searle nella
sua speculazione è critico nei confronti degli studiosi che
accettano l’esistenza della sola coscienza cognitiva a scapito di
quella fenomenica, essi si fanno portavoce del fatto che della
coscienza cognitiva è possibile una spiegazione funzionale e
neurobiologica e, forti di una simile concezione, pretendono di
negare la validità della coscienza fenomenica con il suo carattere
privato, prospettico e qualitativo, un carattere che dal loro punto
di vista la colloca al di là dell’ontologia scientifica ma che per
Searle è un carattere immediatamente confermato dalla vita
quotidiana; egli afferma, infatti, che partendo dalle leggi naturali
«l’esistenza della coscienza segue logicamente da tali leggi,
proprio come l’esistenza di ogni altro fenomeno biologico».
L’esistenza di proprietà mentali dipende, in ultima analisi, da
un’ontologia in prima persona; un’ontologia che si basa
sull’esperienza, sull’utilizzo pratico di oggetti e di proprietà
di questi che in nessun modo può essere ricondotta al linguaggio e
all’analisi metodologica utilizzata dalle scienze forti. Il non
poter definire un fenomeno mentale tramite i termini utilizzati dalla
fisica atomica, ad esempio, non ci consente di inferire sulla sua non
esistenza, non ce lo consente perché di questi enti valutiamo
quotidianamente il loro reale stato tramite metodi altri rispetto a
quelli delle scienze ordinarie. Accanto alla giovane, promettente ed
eccitante scienza cognitiva esiste quantomeno un paradigma di
indagine della mente che nega il riduzionismo e l’eliminativismo
delle scienze forti e che appare contemporaneamente fruttuoso e
rispettabile; si sta parlando dell’approccio allo studio degli
eventi reali in prima persona e che solo in prima persona possono
essere definiti e presentati se si vuole evitare il rischio di
eliminarli. Citando ancora Searle: «non credo affatto che viviamo in
due mondi diversi, uno mentale e l’altro fisico – e ancora meno
in tre mondi, mentale, fisico e culturale – ma sono convinto che il
mondo sia uno e ciò che vorrei descrivere sono le relazioni tra
alcune delle molte parti di questo unico mondo».
«Con la
tradizione cartesiana abbiamo ereditato una certa terminologia, e con
essa un insieme di categorie, che, per ragioni storiche, ci
condizionano quando ragioniamo su questi problemi. Il lessico, come
tale, non è neutrale, ma cela anzi un numero sorprendente di
assunzioni teoriche quasi certamente false». Al contrario Searle
ritiene che la coscienza è un fenomeno biologico naturale, essa fa
parte della nostra naturale vita biologica così come ne fanno parte
la crescita o la digestione. Siamo ciechi nei confronti del carattere
naturale e biologico della coscienza e di altri fenomeni mentali, a
causa della nostra tradizione filosofica che ha trasformato il
mentale e il fisico in due categorie che si escludono reciprocamente.
L’unica via d’uscita sta, allora, nel rifiutare decisamente sia
il materialismo che il dualismo e nell’accettare che la coscienza è
un fenomeno mentale qualitativo, soggettivo e allo stesso tempo che
essa è una parte naturale del mondo fisico. Gli stati coscienti sono
qualitativi, nel senso che per ogni stato cosciente c’è qualcosa
che qualitativamente sente di essere in quello stato; inoltre sono
soggettivi nel senso che essi esistono solamente se vissuti da un
soggetto umano. La coscienza è, allora, un fenomeno naturale,
biologico, che non rientra in nessuna delle tradizionali categorie
del mentale e del fisico. Essa è causata da microprocessi che
avvengono nel cervello ad un livello di descrizione inferiore ed è
una caratteristica emergente ai macrolivelli superiori. Per accettare
questo naturalismo biologico dobbiamo prima di tutto abbandonare le
categorie tradizionali e la terminologia ad esse connessa:
«Espressioni come mente e corpo, mentale, materiale e fisico, al
pari di riduzione, causalità e identità, come sono usate nella
discussione del problema mente-corpo, sono la fonte delle nostre
difficoltà e non strumenti per il loro superamento».
In che modo
esattamente i processi neurobiologici che avvengono nel cervello
causano la coscienza? È una cosa particolare pensare al fatto che
qualsiasi avvenimento che si verifica nella nostra vita cosciente sia
causato da processi cerebrali. Per quanto ne sappiamo, i processi
fondamentali hanno luogo ai microlivelli delle sinapsi, dei neuroni,
delle colonne di neuroni e delle cellule di unificazione. L’intera
nostra vita cosciente è causata da questi processi di livello
inferiore, ma abbiamo un’idea confusa di come tutto questo
funzioni. Rispetto a questo problema, alcune difficoltà sono di
carattere pratico; secondo le indagini attuali, infatti, il cervello
umano ha più di cento miliardi di neuroni ed ogni singolo neurone
presenta connessioni sinaptiche con gli altri neuroni; altre
difficoltà sono di carattere filosofico. Non è problematico,
infatti, dare una definizione di senso comune che riguardi la
coscienza, essa si riferisce a quegli stati di sensibilità e di
consapevolezza che caratteristicamente iniziano quando ci svegliamo e
finiscono quando andiamo nuovamente a dormire. Definita in questo
modo, la coscienza è un fenomeno interiore, di prima persona e
qualitativo. Possiamo dire che il cervello è un organo come gli
altri, è una macchina organica. La coscienza, da questa prospettiva,
è causata da processi neurali di livello inferiore che avvengono nel
cervello ed è essa stessa una caratteristica del cervello. Poiché è
una caratteristica che nasce a partire da alcune attività neurali,
possiamo pensare che essa è una proprietà emergente del cervello.
Una proprietà emergente di un sistema è qualcosa che viene spiegato
causalmente dal comportamento degli elementi del sistema, ma non è
una proprietà di qualsiasi elemento individuale e non può essere
spiegata semplicemente come la somma delle proprietà di quegli
elementi. «Definisco la mia posizione naturalismo biologico, perché
fornisce una spiegazione naturalistica al problema mente-corpo
tradizionale mettendo in rilievo il carattere biologico degli stati
mentali ed evitando tanto il materialismo quanto il dualismo». La
posizione di Searle si basa su quattro tesi fondamentali: la prima è
che gli stati coscienti che hanno, come detto, un’ontologia
soggettiva in prima persona, sono fenomeni reali del mondo e, in
quanto tali, non possono essere eliminati semplicemente tramite una
riduzione che tende ad identificarli con stati fisici; in secondo
luogo, gli stati coscienti ed i fenomeni mentali, sono interamente
frutto di processi neurobiologici del cervello, ovvero, sono
completamente riducibili a processi neurobiologici; come terzo punto
egli afferma che: «gli stati coscienti sono realizzati nel cervello
quali caratteristiche del sistema cerebrale, e dunque esistono ad un
livello più alto di quello dei neuroni e delle sinapsi. I singoli
neuroni non sono coscienti, ad essere coscienti sono parti del
sistema cerebrale costituito da neuroni»; inoltre, e questo è il
quarto ed ultimo punto, dato che gli stati coscienti sono reali essi
hanno una reale efficacia causale. Per concludere possiamo dire che i
fenomeni mentali sono fenomeni reali che non possiamo eliminare
appellandoci semplicemente al principio di oggettività scientifica e
descrittiva, né possiamo definire esclusivamente in termini fisici e
materiali.
Assodato che
tutti i nostri processi mentali sono il frutto di processi
neurobiologici che avvengono nel cervello e nel resto del sistema
nervoso, dimostrato, inoltre, che hanno efficacia causale e che la
loro ontologia è in prima persona, la domanda che dobbiamo porci è:
perché questa soluzione apparentemente ovvia trova una così forte
resistenza da parte del mondo accademico?
Molti
filosofi non vedono come le entità mentali possano esistere ed
essere causate dai processi biologici del cervello; per Searle essi
compiono, però, un gran numero di errori il primo dei quali riguarda
già la distinzione che viene istituita tra il mentale ed il fisico.
Si suppone, infatti, che la distinzione tra stati mentali concepiti
ingenuamente e stati fisici concepiti ingenuamente sia espressione di
una profonda distinzione metafisica, cosa che per Searle non è
possibile dato che la coscienza è un livello di sistema, una
proprietà biologica. La coscienza è una caratteristica biologica
del cervello allo stesso modo in cui la digestione è una
caratteristica biologica dell’apparato digerente, non esiste alcuna
differenza metafisica. Torniamo, inevitabilmente, a sottolineare che
il problema nasce soprattutto a causa della terminologia che
utilizziamo, essa introduce termini che nella tradizione sono stati
definiti in modo tale da essere mutuamente esclusivi, il mentale
viene definito come qualitativo, soggettivo, in prima persone e
quindi esplicitamente come un ché di non materiale, mentre, al
contrario, il fisico viene definito come non qualitativo, oggettivo,
espresso tramite un’ontologia in terza persona e dunque come
esclusivamente materiale. Come mostrato già precedentemente, queste
definizioni sono inadeguate ad esprimere il fatto che il mondo
funziona in modo tale da far si che alcuni processi biologici siano
qualitativi ed in prima persona. Le caratteristiche del mentale sono
perfettamente compatibili con le caratteristiche che rendono il
fisico possibile oggetto delle scienze esatte; il mentale è,
infatti, localizzabile nello sazio-tempo, è spiegabile in termini di
microfisica ed ha efficacia causale. La mente e gli stati mentali
sono localizzati nello spazio del cervello in un certo periodo di
tempo, sono spiegabili causalmente mediante processi di livello più
basso e sono, infine, in grado di agire causalmente. Non ci sono,
dunque, ragioni per cui un sistema fisico quale un organismo umano o
animale non debba avere stati soggettivi, qualitativi e intenzionali;
oltre al fatto che occorre rivedere l’intera terminologia
utilizzata dalle definizioni tradizionali. «La soluzione è quella
di non negare alcun fatto ovvio, ma di cambiare le categorie in modo
da poter riconoscere che la coscienza è, allo stesso tempo,
completamente materiale ed irriducibilmente mentale. E ciò significa
che dovremmo semplicemente abbandonare le tradizionali categorie di
materiale e mentale così come sono state usate nella tradizione
cartesiana».
Esistono due
tipi di riduzioni, la riduzione causale e la riduzione ontologica.
Spesso, nella storia della scienza, si è effettuata una riduzione
ontologica sulla base di una riduzione causale o in nome di una
riduzione causale. Di fronte alla coscienza, però, possiamo compiere
una riduzione causale ma non siamo autorizzati a compiere una
riduzione ontologica se non vogliamo venire meno alle ragioni per cui
utilizziamo il concetto stesso di coscienza. La coscienza può essere
spiegata interamente tramite l’attività dei neuroni ma questo non
dimostra che non sia altro che attività dei neuroni, che non sia
altro oltre a ciò che si può valutare esclusivamente da un punto di
vista fisico. Lo scopo principale per cui utilizziamo il concetto di
coscienza è, infatti, quello di cogliere le caratteristiche
soggettive, in prima persona, del fenomeno e questo obiettivo viene
meno se ridefiniamo la coscienza in termini oggettivi, in terza
persona. «La coscienza è un fenomeno interno, soggettivo, di prima
persona e qualitativo. Ogni descrizione della coscienza che lasci
fuori queste caratteristiche non è una descrizione della coscienza,
ma di qualcos’altro». Utilizzando il concetto di coscienza ci
rendiamo subito conto della presenza di un’asimmetria; ovvero, se
per definire la coscienza eliminassimo l’ontologia in prima persona
e ridefinissimo le parole che la esprimono in termini di terza
persona, allora verrebbe meno perfino lo scopo per cui utilizziamo
gli stessi concetti relativi alla coscienza, nonché la coscienza
stessa. L’irriducibilità della coscienza rivela la presenza di una
profonda asimmetria nelle nostre usuali pratiche definitorie.
Le riduzioni
eliminative mostrano che il fenomeno indagato in realtà non esiste.
Le riduzioni eliminative si basano sulla distinzione tra apparenza e
realtà, ma non possiamo dimostrare che l’esistenza stessa della
coscienza è un’illusione, perché nel campo della coscienza
l’apparenza è la realtà. Io posso avere l’illusione che il sole
stia tramontando dietro le montagne quando in realtà le cose non
stanno così; ma non posso allo stesso modo avere l’illusione della
coscienza se non sono cosciente. L’illusione della coscienza è
identica alla coscienza stessa».
In
definitiva, non si può eliminare per riduzione la coscienza, perché
la coscienza è una realtà e la sua esistenza reale non è soggetta
ai consueti dubbi epistemici; tali dubbi, infatti, si basano sulla
distinzione tra apparenza e realtà mentre riguardo all’esistenza
stessa di stati coscienti la distinzione tra apparenza e realtà non
è possibile. È possibile una riduzione causale della coscienza al
suo sostrato neuronale, ma ciò non conduce ad una riduzione
ontologica, perché la coscienza ha un’ontologia in prima persona e
si verrebbe meno alla ragione per cui il concetto è stato introdotto
se lo si ridefinisse in termini di terza persona.
Entrambe le
posizioni che cercano di rispondere al problema mente-corpo dicono
qualcosa di vero. Il materialismo afferma che l’universo, nella sua
interezza, è composto di particelle fisiche esistenti in campi di
forza e spesso organizzate in sistemi, e in questo sostiene il vero,
ma da ciò si sente autorizzato a trarre la conclusione erronea che
non esistono fenomeni mentali ontologicamente irriducibili; il
dualismo, da parte sua, cerca di dire che i fenomeni mentali
esistono, e in ciò ha ragione, ma ne deduce erroneamente che tali
fenomeni sono qualcosa di separato dal mondo fisico ordinario,
qualcosa che va al di là del loro sostrato fisico. Searle conserva
la parte vera di ciascuna delle due posizioni, ma nega gli errori che
entrambe commettono; se si rimane attaccati al vocabolario
tradizionale ciò sembra impossibile. I poteri causali della
coscienza e quelli della sua base neurobiologica sono esattamente gli
stessi e ciò mostra che non sono due cose diverse, non sono due
entità diverse ma è solo lo stesso sistema descritto a livelli
diversi. La coscienza si distingue dalla solidità, dalla liquidità
e dalle altre caratteristiche del mondo fisico per il semplice fatto
che la sua riduzione causale non porta ad una sua riduzione
ontologica, e questo perché la coscienza ha un’ontologia in prima
persona mentre i processi neurali ne hanno una in terza persona.
La coscienza
è dunque un aspetto del cervello ed è un aspetto costituito
all’interno dell’esperienza ontologicamente soggettiva. Ciò non
significa affermare che ci sono due differenti regni metafisici
all’interno del nostro cranio, uno fisico e l’altro mentale; ci
sono soltanto processi che avvengono nel cervello e di questi alcuni
sono esperienze coscienti.
Ora iniziamo
con il presentare le proprietà strutturali che caratterizzano la
coscienza nella vita quotidiana; ed iniziamo proprio ad affermare che
la coscienza umana si manifesta in un numero strettamente limitato di
modalità: accanto ai cinque sensi, e al senso dell’equilibrio,
vanno ricordate le sensazioni corporee e il flusso del pensiero.
Altra fondamentale caratteristica della coscienza è la sua unità,
gli stati coscienti si manifestano a noi come segmenti di una
sequenza unitaria. Inoltre la coscienza è intenzionale, in generale
ogni stato cosciente è diretto a qualcosa.
Le nostre
esperienze coscienti, diversamente dagli oggetti cui si riferiscono,
hanno sempre un punto di vista e quindi una prospettiva. Il fatto che
le esperienze coscienti siano per loro natura dotate di prospettiva
ci ricorda che l’intenzionalità è aspettuale: vedere un oggetto
da un certo punto di vista significa vederlo sotto certi aspetti e
non altri, il vedere è sempre un “vedere come”. Discutere
dell’intenzionalità della coscienza ci porta inevitabilmente ad
affermare l’esistenza di un sentimento soggettivo legato ad ogni
stato cosciente; «gli stati coscienti esistono solo in quanto c’è
un soggetto umano o animale che ne ha esperienza. Hanno un tipo di
soggettività che chiamiamo soggettività ontologica».
La coscienza
è per sua propria essenza qualitativa, soggettiva e unificata; «la
nostra esperienza cosciente non ci si presenta come un guazzabuglio
disorganizzato: ci si presenta, invece, di norma, nella forma di
strutture ben definite e a volte anche precise». Dunque, le
esperienze coscienti sono caratterizzate da una struttura
figura-sfondo, a ciò si collega il fatto che le nostre percezioni
sono sempre dotate di una costituzione definita, e lungi dal
limitarsi a semplici forme indifferenziate, sono, invece, sempre
organizzate in oggetti e proprietà di oggetti. Normalmente, quindi,
vedere è sempre un “vedere come”. «La struttura gestaltica
della coscienza, dunque, presenta almeno due aspetti. Il primo è la
capacità del cervello di organizzare le percezioni in totalità
coerenti; il secondo la capacità del cervello di discriminare tra
figura e sfondo». Inoltre, nel campo della coscienza e dei fenomeni
che la riguardano, è necessario distinguere tra ciò che si pone al
centro dell’attenzione e ciò che, al contrario, ne occupa la
periferia.
Abbiamo
brevemente mostrato i cardini delle opinioni di Searle sulla
coscienza: la qualitatività, la soggettività e l’unità
dell’esperienza cosciente e della coscienza in quanto tale si
uniscono indissolubilmente alla sua intenzionalità, a quella che
abbiamo definito differenza tra centro e periferia, e alle conoscenze
base della psicologia. «Il modo di esistenza degli stati coscienti è
dunque ontologicamente soggettivo, ma la soggettività ontologica del
oggetto di studi non preclude la possibilità di una scienza
epistemicamente oggettiva che lo studi». La coscienza è l’essenza
stessa della nostra esistenza dotata di significato e le verità che
riguardano la coscienza sono verità che riguardano la vita di ogni
individuo.
L'intelligenza
artificiale e la stanza cinese
«La
filosofia non può eludere la questione posta in essere dai teorici
dell’IA, perché ne va dell’uomo stesso, del suo posto e del suo
destino nel mondo».
Secondo la
concezione dell’intelligenza artificiale debole il pregio
principale del calcolatore come strumento per lo studio della mente,
sta nel fatto che esso ci fornisce un congegno potentissimo, ci
permette, ad esempio, di formulare e verificare le ipotesi in un modo
più preciso, più rigoroso e più veloce di una valutazione fatta
con il solo ausilio dell’intelligenza umana. Secondo l’intelligenza
artificiale forte, invece, il calcolatore non è semplicemente uno
strumento che può aiutarci nello studio della mente, me è,
piuttosto e se programmato opportunamente, una vera e propria mente;
per l’intelligenza artificiale forte si può in altre parole
affermare che i calcolatori, una volta corredati da programmi giusti,
letteralmente capiscono e posseggono stati cognitivi.
Per mostrare
cosa si intende per intelligenza artificiale sono costretto ad
introdurre il concetto della macchina di Turing. Una macchina di
Turing è un congegno che esegue calcoli utilizzando solo due tipi di
simboli, di solito si parla di zero e di uno, di vero e di falso, ma
una qualsiasi coppia di numeri o simboli andrebbe bene. La macchina,
nella sua forma idealizzata, è costituita da un nastro infinito su
cui possono essere scritti i simboli e da un cursore che legge i
simboli sul nastro. Il cursore ha solo quattro possibili movimenti,
può muoversi a destra e a sinistra, cancellare uno zero e stampare
un uno o cancellare un uno e stampare uno zero. Ogni problema che ha
una soluzione algoritmica può essere risolto da una macchina di
Turing, in sostanza qualsiasi problema enunciato in forma algoritmica
ha una soluzione se una macchina di Turing è in grado di risolverlo.
Possiamo
aggirare e sorvolare su tutti i grandi e annosi dibattiti
semplicemente chiedendoci se la macchina di Turing, o meglio, se un
qualsiasi calcolatore elettronico possa comportarsi in modo tale che
un esperto non riesca a distinguere il suo comportamento dal
comportamento umano. Ogni sistema complesso può essere descritto in
diversi modi, ha una formulazione che presenta diverse variabili;
tale variabilità di possibilità descrittive ci viene presentata
tramite la metafora dei livelli: concepiamo il microlivello delle
molecole come un livello di descrizione più basso a cui seguono il
livello della struttura microfisica e quello delle parti componenti,
ovvero livelli di descrizione più alti e così via in senso
crescente; ad un livello basso di descrizione, ad esempio, due
computer potrebbero essere del tutto diversi, ma ad un livello di
descrizione più alto è possibile che implementino esattamente lo
stesso algoritmo.
La nozione
di livelli di descrizione diversi contiene già implicitamente
un’altra nozione di fondamentale importanza nella definizione delle
basi che fanno da sfondo alla teoria computazionale della mente,
quella di realizzabilità multipla: una caratteristica di livello più
alto può essere realizzata fisicamente da sistemi diversi; proprio
come lo stesso programma può essere implementato da tipi diversi di
hardware, e dunque si dice realizzabile in maniera multipla, così lo
stesso stato mentale potrebbe essere implementato da generi diversi
di hardware e dunque essere realizzabile in maniera multipla. Tutta
questa strategia consente alle ricerche sull’intelligenza
artificiale di frammentare i grandi problemi complessi in piccoli
problemi semplici. Il fascino dell’idea di macchina di Turing è
che ad un livello più basso tutti i problemi si riducono a semplici
manipolazioni di zero e di uno. L’idea di scomposizione ricorsiva,
allora, offre uno strumento importante nelle ricerche che guardano
alla conoscenza della mente umana, le funzioni intelligenti complesse
degli esseri umani risultano, alla fine, scomponibili ricorsivamente
in funzioni semplici permettendo così un’agevole soluzione.
Le teorie
della mente più autorevoli e dominanti negli ultimi decenni del
ventesimo secolo sostenevano, ed in parte ancora sostengono, che il
cervello dell’uomo è un computer digitale, con tutta probabilità
esso è una macchina di Turing universale; come tale esegue algoritmi
implementando programmi e, in sostanza, ciò che chiamiamo mente è
un programma o un insieme di programmi. Per i sostenitori di queste
teorie, per comprendere le capacità cognitive dell’uomo sarebbe
solamente necessario scoprire quali programmi gli esseri umani di
fatto implementano quando attivano capacità percettive come la
ricezione, la memoria, la fantasia e tante altre. Dato che il livello
di descrizione relativo ai fenomeni mentali corrisponde al livello di
descrizione che presentano i programmi, non avremmo allora alcun
bisogno di capire nei dettagli come funziona il cervello per avere
una comprensione della cognizione umana.
Gli stati
mentali sono realizzabili in maniera multipla in diversi tipi di
strutture fisiche che casualmente si trovano ad essere implementate
nel cervello ma che potrebbero essere ugualmente implementate in una
gamma indefinita di hardware per calcolatori. Qualsiasi
implementazione hardware, allora, andrebbe bene per la mente umana,
purché sufficientemente stabile e complessa da permettere
l’esecuzione dei programmi. In poche parole, da questo punto di
vista, per stabilire se abbiamo inventato realmente una macchina
intelligente, dovremmo soltanto affidare il nostro giudizio al
verdetto del test di Turing.
È in questo
contesto che Searle introduce l'esempio della stanza cinese per
evidenziare come il programma che guida le macchine di Schank, ovvero
quelle mecchine che secondo i teorici dell'intelligenza artificiale
forte forniscono la prova secondo cui anche un ammasso di circuiti
possa eleborare sistemi cognitivi, sono in realtà soltanto
operazioni algoritmiche che non hanno alcun collegamento con il
pensiero umano e con l'elaborazione di enunciati significativi.
Quando una
macchina di Schank deve rispondere con un output ad un determinato
input si basa su di una rappresentazione del corredo di informazioni
simile a quello posseduto dagli esseri umani, corredo che
naturalkmente le è fornito dal suo programmatore. Dopo aver fornito
alla macchina la storia e dopo averle posto domande su la stessa, la
macchina mette in moto un programma che le consente di stampare
risposte dello stesso tenore di quelle che attendiamo di ricevere da
ascoltatori umani nel caso in cui gli si raccontassero storie simili.
I fautori della versione forte dell’intelligenza artificiale
sostengono, non solo che in questa successione di domande e risposte
la macchina simula una capacità finora ritenuta esclusivamente
umana, ma affermano anche che la macchina, nel vero senso del
termine, capisce la storia e dando le risposte alle domande, mostra
come l’attività di un programma possa spiegare in cosa consiste la
capacità umana di capire storie e di rispondere a domande su di
esse.
Searle nota
però che un simile approccio mostra qualche cosa di errato già a
partire dalla nozione di informazione che pone come base per le
successive delucidazioni: «la nozione di elaborazione delle
informazioni adottata dalle scienze cognitive è in sintesi troppo
astratta per catturare la concreta realtà biologica
dell’intenzionalità intrinseca: le informazioni elaborate dal
cervello sono sempre relative ad una specifica modalità, sia essa la
visione, l’udito o il tatto, mentre i modelli computazionali dei
processi cognitivi non fanno che produrre, in base a determinati
insiemi di simboli di input, altrettanti insiemi di simboli di
output».
L'argomento
della stanza cinese, che Searle inizia ad elaborare già a partire
dagli anni ottanta del novecento, sostiene che: «un calcolatore –
potrei essere io stesso – sarebbe in grado di effettuare tutti i
passi di un programma che simuli una qualche capacità mentale come
la comprensione del cinese senza capire una sola parola di quella
lingua. L’argomentazione poggia su di una semplice verità logica:
sintassi e semantica non si equivalgono, e la sintassi di per sé non
è sufficiente a costituire la semantica».
Secondo
Searle possiamo provare a fare lo stesso esperimento con un uomo,
chiudendolo in una stanza e aspettando che risponda alle informazioni
che gli vengono fornite dall'esterno. Un primo foglio conterrà le
informazioni che chiamiamo scrittura, ovvero il modo tramite cui
accostare gli ideogrammi cinesi per far si che comunichino qualche
cosa; un secondo conterrà informazioni che definiamo storia ed,
infine, un terzo foglio conterrà le domande; inoltre chiamiamo
risposte alle domande i simboli che l’uomo produce come risposta ai
contenuti presenti nel terzo foglio e definiamo programma l’insieme
delle regole date nella lingua madre dell’uomo. L’insieme di
questo materiale, nel nostro esperimento ipotetico, sarebbe fornita
da un equipe di ricercatori che valutano l’andamento della prova da
una posizione esterna alla stanza.
Ora
immaginiamo che questa equipe di ricercatori fornisca, accanto alle
storie scritte in cinese, anche delle storie scritte nella
madrelingua dell’individuo chiuso nella stanza e che ponga domande
anche su queste consentendogli così di rispondere nella sua lingua
naturale.
Da un punto
di vista esterno, ovvero per coloro che si trovano al di fuori di un
simile sistema e che si occupano soltanto di leggere le risposte che
provengono dalla stanza, le risposte alle domande in cinese e alle
domande poste nella madrelingua dell’individuo risultano
altrettanto buone e convincenti. Ma, e questo è il punto che Searle
vuole evidenziare, nel caso del cinese, a differenza di ciò che
avviene quando si discute nella lingua natale dell’individuo,
l’uomo risponde semplicemente manipolando simboli formali non
interpretati; per quanto riguarda il cinese, quindi, l’uomo si
comporta né più né meno che come un calcolatore, esegue, cioè,
soltanto operazioni di calcolo su elementi specificati per via
formale. Per quanto riguarda il cinese, l’uomo è semplicemente
un’istanziazione del programma di un calcolatore.
A questo
punto possiamo mostrare quella che è la base di partenza per
chiunque abbracci una concezione vicina alla visione forte
dell’intelligenza artificiale; per questi teorici, un calcolatore,
se programmato nel giusto modo, capisce realmente le storie, e dunque
è in questo programma specifico che essi individuano la capacità di
comprendere dell’uomo; in altri termini, sarebbe solo un programma
ciò che può mostrarci in cosa consiste la reale capacità di
comprendere degli esseri umani. «Alla base del modello
computazionato della mente sta l’idea secondo cui la mente e il
cervello sono rispettivamente il programma e l’hardware di un
sistema computazionale. Come recita uno slogan assai diffuso: la
mente sta al cervello come il programma sta all’hardware». Ma alla
fine del processo comunque l’uomo non capirà nulla delle risposte
che egli dà in cinese. Per le stesse ragioni, il calcolatore di
Schank non capisce nulla né delle storie in cinese né delle storie
fornitegli in una qualsiasi altra lingua, poiché nel caso del
cinese, ovvero nel nostro caso, il calcolatore è l’individuo
chiuso nella stanza e anche se il calcolatore non fosse l’uomo del
nostro esempio comunque non avrebbe nulla più di ciò che ha un uomo
quando si trova nella condizione di non capire nulla. Il calcolatore
ed il suo programma non forniscono, quindi, le condizioni sufficienti
per il comprendere; essi funzionano soltanto senza che ci sia alcun
tipo di comprensione.
Quali che
siano i principi puramente formali introdotti nel calcolatore, essi
non saranno mai sufficienti per il comprendere perché, anche un
essere umano, sarà capace di seguire quei principi formali senza per
questo capire nulla. Dunque, «il pensiero cosciente è qualcosa di
altro rispetto ad un programma di calcolatore. Il computer opera
manipolando simboli. Le sue operazioni sono definite in maniera
puramente sintattica, mentre la mente umana dispone di qualcosa di
più di simboli non interpretati: ai simboli assegna un significato».
Inoltre, riprendendo ancora Searle «il senso in cui c’è
computazione in una macchina è il senso in cui c’è informazione
in un libro. C’è senz’altro, ma è relativa all’osservatore e
non intrinseca. Per questa ragione non si può scoprire che il
cervello è un computer digitale, dato che la computazione non viene
scoperta in natura, ma viene attribuita». Un programma, per quanto
complesso esso sia o possa essere, non opera alcun processo di
significazione semantica.
L’uomo è
capace di capire non perché e simile ad un’istanziazione di un
programma per calcolatore, ma perché è un determinato genere di
organismo, con una certa e speciale struttura biologica, che risulta
causalmente capace di produrre, date certe condizioni, percezione,
azione, comprensione, apprendimento ed altri fenomeni mentali. Solo
un organismo con questi poteri causali può essere provvisto di
intenzionalità e di coscienza. Nessun modello puramente formale, per
quanto lo si voglia immaginare evoluto, sarà mai sufficiente a
generare di per sé fenomeni come l’intenzionalità o la
comprensione, perché le proprietà formali non costituiscono
intrinsecamente tali fenomeni e non hanno in sé poteri causali oltre
a quello di produrre un determinato output come risposta ad un certo
input, ed inoltre, questo stesso e minimo potere causale è qualcosa
che non attribuisce significato all’output prodotto ma lo presenta
sempre espresso in maniera formalizzata. Le elaborazioni di simboli
formali non racchiudono alcuna intenzionalità in quanto
assolutamente prive di senso; esse, come dice Searle, hanno una
sintassi ma non hanno una semantica; tutto ciò per dire che
l’intenzionalità che attribuiamo ai calcolatori è tale solo nella
mente di chi li programma e di chi li usa, di chi fornisce l’ingresso
e il programma e di chi ne interpreta le uscite.
L’assunto
di base della versione forte dell’intelligenza artificiale, ovvero
la mente sta al cervello come il programma sta all’hardware, fa,
secondo Searle, acqua da parecchi punti: la distinzione fatta tra
programma e sua realizzazione ha per conseguenza che uno stesso
programma potrebbe avere una quantità di realizzazioni diverse,
tutte prive di qualunque tipo di intenzionalità; inoltre un
programma è un che di puramente formale mentre gli stati
intenzionali non sono per niente formali o formalizzabili ma sono
definibili unicamente in base al loro contenuto; in fine possiamo
dire che gli stati e gli eventi mentali sono letteralmente un
prodotto del cervello mentre un programma non è il prodotto di un
calcolatore.
Un
calcolatore non compie un’elaborazione delle informazioni nello
stesso senso di quella che compiono le persone quando, ad esempio,
riflettono o leggono; quella del calcolatore è solo un’elaborazione
di simboli formali. Dunque, «un sistema che si limita a manipolare
simboli fisici secondo regole che tengono conto della struttura sarà
al massimo una vuota parodia dell’autentica intelligenza cosciente,
poiché è impossibile dar vita ad una “vera semantica” macinando
semplicemente una “vuota sintassi”».
È e sarà
sempre compito degli interpreti esterni, ovvero di coloro che
osservano dall’esterno l’intero processo, interpretare l’ingresso
e l’uscita come informazioni nel senso ordinario. Il fulcro
dell’argomentazione di Searle è che «la sintassi non è
intrinseca alla fisica: l’attribuzione di proprietà sintattiche è
sempre relativa ad un agente o ad un osservatore che interpreta
sintatticamente determinati fenomeni fisici».
Concludiamo
dicendo che l’intelligenza artificiale nella sua versione forte ha
senso solo a partire dall’assunto dualistico che dove si tratta di
mente il cervello non ha importanza.
Il programma
dell’intelligenza artificiale forte, di riprodurre e spiegare i
fenomeni mentali soltanto costruendo dei programmi, è inattuabile a
meno che la mente non sia realmente indipendente dal funzionamento
del cervello, non solo concettualmente ma anche empiricamente come
avviene nel caso del programma e della sua realizzazione su di un
hardware.
Qualunque
cosa sia ciò che il cervello fa quando produce stati mentali come
l’intenzionalità, essa non può consistere nell’istanziare un
programma, dato che nessun programma di per sé è sufficiente a
produrre intenzionalità. «La mente non potrebbe essere soltanto un
programma per computer perché i simboli formali di un programma non
sono di per sé stessi sufficienti a garantire la presenza del
contenuto semantico che si trova nelle menti reali». «La semplice
manipolazione di simboli formali non è di per sé e in sé
costitutiva dell’avere contenuto semantico. Non ha importanza fino
a che punto il sistema riesce ad imitare il comportamento di qualcuno
che comprende veramente, né ha importanza quanto complessa possa
essere la manipolazione di simboli; non è possibile scindere la
semantica dai processi sintattici».
Intenzionalità
e società
É proprio a
partire dal fenomeno dell’intenzionalità, sia essa intrinseca o
derivata, individuale o collettiva, che si può chiarire sia il modo
che l’uomo utilizza per mettersi in relazione con l’ambiente
circostante, sia il processo progressivo e inarrestabile della
cosiddetta attribuzione di funzione di status che è la colonna
portante per la creazione della realtà sociale.
Il ruolo
primario della mente, considerando anche il punto di vista sociale, è
quello di metterci in relazione con l’ambiente e con le altre
persone. La coscienza e le altre caratteristiche della mente, come ad
esempio l’intenzionalità, hanno la capacità di mettere un
individuo nelle condizioni di avere una relazione con la realtà che
lo circonda. Intenzionalità è il termine che si utilizza per
indicare tutte le varie forme tramite le quali la mente di un
individuo può dirigersi, riguardare o appartenere agli oggetti e
agli stati di cose nel mondo.
Coscienza ed
intenzionalità sono strettamente collegate ed «il problema
dell’intenzionalità è in qualche modo un’immagine speculare del
problema della coscienza. Proprio come si ritiene che sia
estremamente difficile riuscire a comprendere come semplici frammenti
all’interno del cranio possano essere coscienti, o possano creare
la coscienza mediante le loro interazioni, così è difficile
immaginare come semplici frammenti di materia all’interno del
cranio possano riferirsi a, o vertere su, qualcosa nel mondo al di là
di sé stessi, o possano creare tale riferimento mediante la loro
interazione».
Searle tende
ad una naturalizzazione dell’intenzionalità che la presenti come
fenomeno biologico, sulla scia dell’indagine condotta sulla
coscienza e sui restanti stati mentali.
Per la
chiarificazione di un concetto così complesso come quello di
coscienza o intenzionalità bisogna fare appello al soggetto
senziente e non sottovalutare l’apparato naturale che gli consente
di indirizzare il suo pensiero e le sue azioni verso stati di cose
altri da lui e verso persone che sono come lui.
L’intenzionalità
si presenta in varie forme, dobbiamo dunque distinguere
l’intenzionalità che gli esseri umani ed alcuni animali hanno come
loro proprietà e caratteristica intrinseca, da quel tipo di
intenzionalità che contraddistingue ad esempio le parole, le frasi,
le immagini, i diagrammi, le mappe e i grafici, che definiamo
intenzionalità derivata. Inoltre,
dobbiamo distinguere l’intenzionalità intrinseca e quella derivata
dalle attribuzioni metaforiche di intenzionalità, queste non dicono
letteralmente nulla sull’intenzionalità e vengono presentate in
questo contesto solamente perché è come se avessero intenzionalità.
Riguardo all’intenzionalità intrinseca, che possiamo considerare
la vera forma di intenzionalità, possiamo dire che essa viene
attribuita soltanto agli individui, questi nel momento in cui
dirigono il loro pensiero verso qualcosa del mondo reale e sociale
sono portatori di stati intenzionali, indipendentemente da quanto
qualsiasi altra persona può pensare a riguardo. L’intenzionalità
derivata potrebbe essere definita come una sottoclasse
dell’intenzionalità, essa deriva sempre dell’intenzionalità
intrinseca, ovvero è sempre riferibile all’intenzionalità
intrinseca del soggetto senziente, il quale nel momento in cui si
riferisce ad un’entità che sia altro da lui può attribuirle
un’intenzionalità derivata e così consentire alla cosa stessa di
riferirsi ad altro rispetto a sé. Il significato relativo ad
un’entità con intenzionalità derivata, ad esempio una frase o una
parola, non è intrinseco all’entità stessa, ma riguarda sempre
l’agente che possiede la capacita di riferirsi, consciamente o
inconsciamente, al mondo esterno e che cosi costituisce la relazione
chiamata intenzionalità. Il terzo tipo di intenzionalità, quello
che si riferisce ad un’entità come se questa avesse
intenzionalità, mentre in realtà non ne ha, è metaforico;
affermare che un’entità ha un’intenzionalità di questo tipo è
solo un modo per dire che essa si comporta come se avesse
intenzionalità, come se essa autonomamente trasportasse e fosse
realmente tramite di informazioni.
La
distinzione tra intenzionalità intrinseca e derivata è un caso
speciale della distinzione, che ci interesserà maggiormente in
futuro, tra le caratteristiche del mondo che sono indipendenti
dall’osservatore, come la forza, la massa, l’attrazione
gravitazionale e le caratteristiche che sono dipendenti
dall’osservatore, come l’essere una parola o una frase.
L’intenzionalità intrinseca è sempre indipendente
dall’osservatore mentre l’intenzionalità derivata dipende sempre
dall’attribuzione di intenzionalità che proviene sempre
dall’attività di uno o più osservatori.
Come
mostrato nei riguardi della coscienza, anche l’intenzionalità è
un fenomeno assolutamente biologico. L’intenzionalità è una
caratteristica biologica del mondo reale, è una caratteristica
indipendente dall’osservatore e per questo una qualsiasi
definizione del mondo data nei termini delle scienze esatte non può
escludere i fenomeni mentali di cui stiamo parlando. Come per la
coscienza, che alla fine risulta un fenomeno con ontologia in prima
persona prodotto dalla relazioni di entità definibili con
un’ontologia di terza persona, così anche nel caso
dell’intenzionalità possiamo dire che essa è il risultato
dell’interazione che avviene tra i neuroni all’interno del nostro
cranio; possiamo inoltre aggiungere che, la descrizione fatta a
livello dei neuroni si riferisce esattamente allo stesso fenomeno di
cui parla la descrizione dell’intenzionalità che si dà a partire
da un livello più alto, ovvero, la descrizione dei fenomeni mentali
che avvengono ad un soggetto determinato e che quindi sono provvisti
di una descrizione fenomenica e soggettiva.
La struttura
che contraddistingue gli stati intenzionali:
- Gli stati intenzionali hanno condizioni di soddisfazione, ovvero possono realizzare un maggiore o minore grado di adattamento tra l’intenzione e la realtà concreta.
- Gli stati intenzionali hanno una struttura analoga a quella degli atti linguistici. Gli stati intenzionali sono sempre costituiti da un contenuto proposizionale che si presenta in un determinato tipo o modo di stato psicologico, «si può abbastanza plausibilmente concepire che lo stato consista di un modo psicologico, come la credenza o il desiderio, con un contenuto proposizionale». Il contenuto intenzionale si presenta in forma di credenze, di desideri, di paure, di intenzioni. Indicando con “S” il tipo di stato psicologico e con “p” il contenuto proposizionale, la classica forma di uno stato intenzionale è “Sp”; questa distinzione è fondamentale perché ci consente sia di differenziare i vari modi psicologici in cui può presentarsi lo stesso contenuto, sia di procedere ad un’analisi dello stato intenzionale in riferimento alle sue condizioni di soddisfazione.
- Gli stati intenzionali presentano delle direzioni di adattamento. Ci sono casi di direzione di adattamento mente-a-mondo, ad esempio credenze e ipotesi sono vere o false a seconda del grado in cui il mondo le rispecchia o meno; e casi di adattamento mondo-a-mente in cui, come per i desideri, non è la mente a doversi adattare ad un mondo, che anzi esiste indipendentemente, ma è il mondo che deve essere modificato per coincidere con il contenuto intenzionale. Possiamo dire che nel caso di adattamento mente-a-mondo è la mente che si dirige verso una realtà esistente di per sé, è cioè una responsabilità della credenza, ad esempio, adattarsi al mondo dato; mentre nel caso di stati intenzionali con direzione di adattamento mondo-a-mente la responsabilità di far coincidere stato mentale intenzionale e mondo non è più nelle mani della mente ma dipende unicamente dal mondo e dai suoi potenziali cambiamenti.
La vera
chiave di volta di questo fenomeno, così familiare eppure così
complesso, risiede quasi interamente nel concetto di condizione di
soddisfazione. La condizione di soddisfazione è l’unico modo
tramite il quale possiamo considerare il grado di soddisfazione di
uno stato intenzionale; ovvero, uno stato intenzionale è soddisfatto
o meno a seconda di quanto il mondo si rivela essere effettivamente
ciò che è rappresentato dallo stato intenzionale. «Ogni volta che
abbiamo uno stato intenzionale con direzione di adattamento
non-nulla, l’adattamento può essere raggiunto oppure no: la
credenza sarà vera, il desiderio appagato, l’intenzione messa in
atto oppure no, a seconda dei casi. Se ciò avviene, possiamo dire
che la credenza, il desiderio, o l’intenzione sono soddisfatti».
Dunque, per semplificare, possiamo pensare a tutti gli stati
intenzionali che hanno una proposizione come loro contenuto come a
rappresentazioni delle loro condizioni di soddisfazione.
Quando
usiamo il termine di causazione intenzionale vogliamo riferirci alla
presenza, all’interno di ogni stato intenzionale, di una componente
causale che si aggiunge a quella intenzionale. Le nostre menti sono
sempre in costante rapporto con il mondo e dunque, risulta essenziale
per la nostra sopravvivenza il fatto che la capacità di
rappresentazione che ha acquisito la mente nel corso dei secoli e le
relazioni causali che essa istituisce con il mondo, siano tra loro
connesse in maniera sistematica. Quando chiamiamo in campo la
causazione intenzionale ci riferiamo a quegli eventi in cui causa ed
effetto sono rappresentazioni reciproche, o la causa è
rappresentazione dell’effetto o, viceversa, l’effetto è
rappresentazione della causa.
È parte
della nozione di condizione di soddisfazione il fatto che lo stato
intenzionale sia soddisfatto solo se funziona cusalmente; simili
stati sono causalmente autoreferenziali, ovvero, in essi l’intenzione
è soddisfatta soltanto se essa causa anche le altre condizioni di
soddisfazione.
«La
causazione intenzionale è una qualsiasi relazione causale tra uno
stato intenzionale e le sue condizioni di soddisfazione, dove lo
stato intenzionale causa le sue condizioni di soddisfazione o le sue
condizioni di soddisfazione causano lo stato intenzionale». Le
spiegazioni del comportamento umano impiegano essenzialmente
l’apparato della causazione intenzionale.
Per quanto,
invece, riguarda il concetto di “sfondo” Searle afferma:
«possiamo pensare che la totalità degli stati intenzionali di una
persona formi una complessa rete interattiva», dunque: «se si
seguono i vari fili della rete, si arriva a un certo punto ad un
insieme di abilità, modi di entrare in contatto con il mondo,
disposizioni, e in generale capacità, che normalmente io chiamo lo
“sfondo [background]”». Tutti i nostri stati intenzionali, tutte
le nostre particolari credenze, speranze, paure e così via,
funzionano nel modo in cui funzionano solamente sulla base di uno
sfondo di conoscenze che permette all’uomo di relazionarsi con il
mondo. Lo sfondo è pre-intenzionale, costituisce, dunque, il
presupposto di qualsiasi nostra relazione con il mondo.
Tutti i
processi naturali del cervello possiedono, ad un certo livello,
proprietà logiche semantiche; in poche parole, gli stati cerebrali
hanno un insieme di relazioni logiche e queste fanno parte del
comportamento biologico dell’organismo consentendo al singolo uomo
di attribuire significati alle sue esperienze anche se questa
attribuzione è soltanto frutto della biologia ingenua che governa la
vita dell’individuo stesso.
La
situazione diventa più complessa quando Searle accosta
all'intenzionalità individuale anche l'intenzionalità collettiva.
«Molte specie di animali, la nostra soprattutto, hanno una
predisposizione per l’intenzionalità collettiva. Con ciò intendo
non solo che esse si impegnano in un comportamento cooperativo, ma
che condividano stati intenzionali come credenze, desideri,
intenzioni. Oltre all’intenzionalità individuale vi è anche
un’intenzionalità collettiva». «Nella vita reale
l’intenzionalità collettiva è comune, pratica e veramente
essenziale per le nostre esistenze»; questi sono quindi concetti che
ci aprono la strada alla spiegazione dei fatti istituzionali, così
come ci spianano il cammino per la chiarificazione di ciò che
intendiamo con società dato che «ogni qualvolta che ci sono due
persone che stanno cooperando noi abbiamo un’intenzionalità
collettiva; e, anzi, vorrei concludere che questa è il fondamento di
tutte le attività sociali».
Un modo di
trattare l’intenzionalità collettiva potrebbe essere quello,
secondo Searle erroneo perché mal fondato e troppo superficiale, di
prendere la descrizione dell’intenzionalità individuale e
sostituirla, semplicemente, a tutti i casi in cui compare
l’intenzionalità collettiva. Ma l’intenzionalità collettiva è
un fenomeno biologicamente primitivo che non può essere ridotto o
eliminato in favore di qualcos’altro. Tutta l’intenzionalità
umana esiste solo nei cervelli dei singoli individui; sottolineo
questo punto perché nel momento in cui ci apprestiamo a sostituire
un “noi” con un “io”, nell’analisi dell’intenzionalità,
siamo necessariamente obbligati a spiegare in quale singolo cervello
esiste, esattamente, l’intenzionalità collettiva.
Altre
difficoltà che ci presenta un approccio all’intenzionalità
collettiva così superficiale sono: sia che l’intenzionalità
individuale può spaziare solo sulle azioni che l’agente è in
grado di causare personalmente mentre, spesso, nel comportamento
cooperativo c’è un’intenzionalità che va al di là della
causazione individuale; sia che molte forme di comportamento
collettivo presentano azioni differenti per ogni singolo individuo ma
tutte contemporaneamente confluenti in un unico risultato finale, in
un unico scopo condiviso.
Una corretta
e completa descrizione dell’intenzionalità collettiva dovrà
essere, quindi, in grado di rendere conto sia della componente
causale individuale, sia delle presupposte credenze relative al
comportamento degli altri agenti impegnati in un’azione collettiva.
Deve, insomma, essere in grado di distinguere e correlare sia
l’azione individuale di un singolo, sia le credenze relative al
comportamento degli altri che questo singolo presuppone
necessariamente durante un’intenzione collettiva.
Il contenuto
preposizionale può rappresentare soltanto elementi che l’agente
può o pensa di poter influenzare causalmente; ovvero il contenuto di
un qualsiasi atto intenzionale riguarda sempre e soltanto la mente di
un singolo individuo e non può presentarsi il caso in cui il
contenuto preposizionale dell’azione di un singolo determini il
contenuto preposizionale delle azioni dei restanti individui.
Inoltre, nell’intenzionalità collettiva, non si può richiedere
che ogni intenzionalità individuale sappia qual è l’intenzionalità
degli altri partecipanti; bisogna soltanto dare per scontato che
tutti devono credere che stanno condividendo un obiettivo collettivo.
La questione
profonda da chiarire è: in che modo l’intenzionalità collettiva
può muovere i singoli corpi dato che, come abbiamo detto, il
contenuto del “noi” non è lo stesso contenuto dell’“io”.
Di solito,
nella vita quotidiana, non eseguiamo soltanto azioni semplici, ma
facciamo quasi sempre qualcosa col (by way of) o per mezzo del (by
means of) compimento di qualcos’altro; quindi la formula logica
standard dell’intenzionalità collettiva deve essere integrata con
questi due tipi di strutture profonde dell’azione, tipi che Searle
chiama relazione causale (per mezzo di, by means of) e relazione
costitutiva (con, by way of). Se stiamo cooperando in qualche sforzo
di gruppo, in cui i contributi individuali “A” dei singoli
causano l’effetto ulteriore “B”, allora abbiamo una relazione
causale; mentre, se stiamo cooperando in uno sforzo in cui i
contributi individuali costituiscono l’effetto desiderato, allora
siamo di fronte ad una relazione costitutiva. In entrambe i casi il
singolo individuo non ha alcun riferimento all’intenzionalità o al
comportamento degli altri individui partecipi di un’azione
collettiva, questo perché egli, in qualunque modo, non potrebbe
influenzare a livello causale questi fenomeni, non potrebbe essere la
causa delle intenzioni e dei comportamenti degli altri.
Nell’intenzionalità collettiva bisogna presupporre che tutti
cooperino con ogni singolo agente. Dunque, sia nel caso della
relazione causale che nel caso della relazione costitutiva, il
contenuto di ogni intenzionalità individuale non fa riferimento al
contenuto dell’intenzionalità individuale degli altri
partecipanti. Il singolo deve semplicemente credere e dare per
scontato che, se fa la sua parte, tutta la collettività,
inevitabilmente, farà la sua parte, e ciò perché si sta operando
per il raggiungimento di un obiettivo comune. Per poter partecipare
ad un’intenzione e alla successiva azione collettiva, l’individuo
deve fidarsi e basta.
Riassumendo
l’intera questione, l’unica intenzionalità che può esistere è
quella presente nelle teste dei singoli individui, ma ciò non
significa eliminare l’intenzionalità collettiva, dato che è
proprio questa ad agire, come abbiamo mostrato, nelle teste dei
singoli; non c’è altra intenzionalità collettiva oltre a quella
che è nella testa di ogni membro del gruppo. In sostanza, quando
presentiamo un’intenzionalità collettiva, vogliamo dire che un
individuo sta agendo singolarmente, ma questo come parte di un
gruppo. Ci si può sbagliare sul fatto che gli altri facciano la loro
parte, ma questa è una credenza e un presupposto essenziale che va
di pari passo con lo sforzo individuale, dove lo sforzo individuale è
eseguito come parte di uno sforzo collettivo.
Il fatto
biologico di base, ovvero che tutta l’intenzionalità esiste nei
singoli cervelli, non implica che il contenuto che esiste nei singoli
cervelli non possa esistere in una forma grammaticale al plurale. Ad
esempio, nel caso dell’impegno reciproco l’intenzionalità
collettiva consiste nella relazione che si istituisce tra
l’intenzione individuale che ha il singolo di impegnarsi e la
credenza relativa all’intenzione di impegnarsi dell’altro.
L’ntenzionalità
collettiva è un primitivo, ma questo ha luogo solo nella testa dei
singoli. L’intenzionalità collettiva è del tipo “noi
intendiamo” anche se esiste soltanto nella mia testa individuale.
Una
caratteristica di fondo delle strutture istituzionali, ad esempio, è
che esse per funzionare hanno bisogno del riconoscimento collettivo
da parte dei partecipanti alla relazione interindividuale; come
avviene tra acquirente e venditore. La creazione delle istituzioni si
basa proprio su una simile intenzionalità collettiva; ovvero, per
avere cooperazione all’interno di una struttura istituzionale deve
esserci un riconoscimento collettivo o un’accettazione generale
dell’istituzione, e questo non richiede necessariamente una
cooperazione attiva, ma può tranquillamente basarsi su un
riconoscimento collettivo che funge da presupposto per qualsiasi
ulteriore cooperazione. Dunque, la cooperazione richiede
l’intenzionalità collettiva di cooperare, mentre il riconoscimento
collettivo non richiede una forma analoga di cooperazione e, quindi,
non è necessario che si fondi su un’intenzione collettiva di
cooperare. In realtà, il riconoscimento collettivo richiede soltanto
che ogni partecipante accetti l’esistenza e la validità di
un’istituzione esclusivamente basandosi sulla credenza che vi sia
accettazione reciproca anche da parte degli altri. L’esistenza di
un’istituzione non richiede cooperazione ma soltanto accettazione e
riconoscimento collettivo. «Gli esseri umani dispongono di una
notevole abilità che li rende capaci di andare oltre i semplici
fatti sociali fino ai fatti istituzionali. Essi si impegnano in
qualcosa di più della semplice condivisione di una cooperazione
fisica; parlano insieme, possiedono proprietà, si sposano, formano
governi e così via». Una simile capacità di riconoscimento
reciproco delle istituzioni va di pari passo con la nozione di
attribuzione di funzione. Gli esseri umani hanno capacità di imporre
funzioni agli oggetti, ed è proprio questa attribuzione di funzioni
che crea un nuovo fenomeno relativo all’intenzionalità, sia
individuale che collettiva; un fenomeno che Searle ci presenta con il
termine di funzione di status. Ad un oggetto sarà imposta una
funzione nel momento in cui sarà utilizzato per uno specifico scopo
che va al di là della sua semplice costituzione fisica. La funzione
non è intrinseca all’oggetto, ma deve essergli assegnata da uno o
più agenti esterni». È importante notare che le funzioni sono
sempre relative all’intenzionalità. La natura non sa niente di
funzioni. La funzione è una cosa che serve ad un determinato scopo,
«noi davvero scopriamo funzioni nella natura. Ma la scoperta di una
funzione naturale può avere luogo solo all’interno di un insieme
di assegnazioni precedenti di valore (che includano scopi, teleologia
e altre funzioni)». Gli scopi devono provenire da qualcuno e ciò ci
autorizza ad assegnare esclusivamente agli uomini una simile
capacità; le funzioni sono solo cause per determinati scopi, e
quindi sono sempre relative ad un’intenzionalità reale.
Essendo
relative all’intenzionalità, le funzioni sono necessariamente
dipendenti dalla mente: «tutte le funzioni sono relative agli
osservatori. Le funzioni non sono mai osservatore-indipendenti. La
causazione è invece osservatore-indipendente; ciò che la funzione
aggiunge alla causazione è la normatività o teleologia. Più
precisamente, l’attribuzione di funzione alle relazioni causali
pone le relazioni causali all’interno di una teleologia già
presupposta». Quando parliamo di funzioni di status, parliamo di
quelle funzioni che hanno bisogno di intenzionalità collettiva sia
per la loro creazione iniziale che per prolungare la loro esistenza
nel tempo. Inoltre, sono funzioni che una persona o un’entità
possiede non in virtù della propria struttura fisica, bensì grazie
all’imposizione collettiva e al riconoscimento di uno status; «le
funzioni non sono mai intrinseche alla fisica di nessun fenomeno, ma
sono assegnate dal di fuori da osservatori e utilizzatori coscienti.
Le funzioni, in breve, non sono mai intrinseche, ma sono sempre
relative all’osservatore». Un’entità ha un certo status e il
riconoscimento collettivo di quello status le conferisce il potere di
svolgere la sua funzione. Nella creazione dell’ontologia
istituzionale umana l’intenzionalità collettiva e l’attribuzione
di funzione camminano parallelamente, dato che l’imposizione di
funzione si basa sull’intenzionalità collettiva e sul successivo
riconoscimento collettivo.
Il test più
semplice per verificare se un atto è genuinamente istituzionale è
chiedersi se la sua esistenza implica o meno l’esistenza di poteri
deontici da esso provenienti e ad esso imputabili; ciò perché è
possibile trovarsi di fronte deontologie che non posseggono fatti
istituzionali ma è impossibile trovarsi di fronte fatti
istituzionali cui non corrisponda una relativa deontologia. La
formula generale per la creazione di una funzione di status è: “X
vale come Y, nel contesto C”, ed è proprio a partire
dall’attribuzione di funzioni di status che possiamo chiarire il
processo di creazione e mantenimento dei fatti istituzionali e delle
stesse istituzioni. Riguardo questi concetti Searle formula
un’asserzione molto forte: «tutto ciò che riguarda la realtà
istituzionale può essere spiegato usando esattamente queste tre
nozioni: intenzionalità collettiva, attribuzione di funzione e
regole costitutive».
Per partire
da un caso semplice di istituzionalizzazione, possiamo presentare il
caso in cui una determinata entità viene costituita come fatto
istituzionale non presupponendo alcuna condizione istituzionale
precedente; un determinato oggetto che svolge le sue funzioni in
virtù delle sue caratteristiche fisiche evolve in un oggetto che
svolge le sue funzioni di status non più in virtù della sua
semplice costituzione fisica, ma grazie al riconoscimento e
all’accettazione collettiva che le persone coinvolte gli hanno
attribuito. Secondo Searle questo slittamento dalla fisica
all’accettazione collettiva di una funzione di status, forma la
struttura concettuale di base che sta a fondamento della realtà
istituzionale umana.
Dunque, la
funzione di status è una funzione che viene svolta da uno o più
oggetti, da una o più persone o da altri tipi di entità. I fatti
istituzionali esistono, per così dire, al di sopra dei fatti fisici
bruti e questo perché interviene nella loro costituzione
l’attribuzione collettiva di funzione di status.
L’imposizione
di fatti istituzionali mostra chiaramente che l’uso del linguaggio,
o almeno di una qualche forma di simbolismo, è necessario per
qualsiasi fenomeno collettivo di attribuzione di funzione di status
che aspiri alla normatività. L’oggetto “X” ottiene un nuovo
status, ovvero “Y”, che esiste solo se i partecipanti
all’istituzione hanno un linguaggio abbastanza ricco per
rappresentarlo. Una determinata entità deve rappresentare per tutti
un determinato potere ed una determinata deontologia se vuole avere
un valore ed un’intenzionalità collettivi.
È
importante notare che «dal momento che le caratteristiche fisiche
specificate dal termine “X” sono insufficienti a garantire il
successo nel compimento della funzione assegnata, ci deve essere
un’accettazione collettiva continuata o il riconoscimento della
validità della funzione assegnata; altrimenti essa non può essere
svolta con successo».
Una regola
regolativa è un atto linguistico diretto e permanente la cui
funzione è quella di ottenere una certa forma di comportamento. In
generale, le regole regolative hanno una direzione di adattamento
verso l’alto o, in altri termini, mondo-a-parole; al contrario, le
regole costitutive sono dichiarazioni il cui fine è far sì che una
certa entità valga come altro dalla sua semplice forma fisica e
diventi portatrice di determinati poteri; nessuno deve far nulla per
soddisfare una regola costitutiva, salvo accettarla in quanto tale e
nelle sue intrinseche conseguenze.
Quando siamo
di fronte a strutture sociali complesse, assistiamo all’iterazione
continuata della regola costitutiva, ovvero, la nostra regola “X
vale come Y in C” viene ripetuta più volte in modo da creare una
ricca rete di funzioni di status tra di loro collegate.
Tutto ciò
ci pone di fronte ad un’immensa, varia e molto complessa realtà
istituzionale in cui i fatti istituzionali sono sempre legati tra di
loro; essi non esistono come fatti isolati ma soltanto all’interno
di una complessa rete di relazioni sia tra di loro che con il resto
della realtà non istituzionalizzata. La società e molte delle
relazioni interindividuali che si stabiliscono tra gli esseri umani
che la compongono, sono il frutto dell’intenzionalità collettiva;
è solo a partire da questa che si può comprendere la creazione di
funzioni di status e della relativa realtà istituzionale.
Ottimo riassunto. pochissime le info sul web ma questo articolo è abbastanza completo. grazie
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