giovedì 26 aprile 2012

Riassunto Vico

Gian Battista Vico nasce a Napoli il 23 giugno del 1668. gli studi di scolastica e di diritto gli consentono di svolgere prima il ruolo di precettore dei figli del marchese della Rocca poi, una volta tornato a Napoli, gli rendono possibile avere una cattedra di retorica in quella università. Visse una vita povera, senza ricevere mai particolari riconoscimenti. Morì a Napoli il 23 gennaio del 1744.
Gli scritti di Vico sono le cinque Orazioni inaugurali, Dell'antichissima sapienza italica da trarsi dalle origini della lingua latina (opera che nel progetto doveva essere costituita da tre libri, rispettivamente uno per la metafisica, un'altro per la fisica e il terzo per la morale, ma che rimase incompleta e composta esclusivamente dal primo volume). Nel 1725 pubblicava la sua prima edizione della sua opera più rinomata, i Principi di una scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni, opera accompagnata da un'Autobiografia; La Scienza Nuova fu riscritta quasi completamente nel 1730 e l'edizione del 1744 non differisce di molto da questa seconda edizione.
La filosofia di Vico si apre con una polemica contro Cartesio; in opposizione a Renato che afferma la conoscenza certa che l'uomo ha di se stesso e del proprio essere, Vico afferma che l'uomo può conoscere soltanto ciò che egli stesso ha creato. Questo il senso della famosa affermazione attribuita a Vico secondo cui il vero è il fatto.
La gnoseologia di Vico si impernia interamente sull'antitesi che si istituisce tra la conoscenza dell'uomo e quella di Dio; mentre a Dio appartiene l'intendere che è la conoscenza di tutti gli elementi che compongono l'oggetto e di tutte le loro relazioni, all'uomo appartiene, invece, il pensare, l'andar raccogliendo fuori di sé alcuni degli elementi costitutivi dell'oggetto. La ragione, vero organo dell'intendere, appartiene soltanto a Dio, l'uomo, però, in compenso ne è partecipe. Dio e l'uomo possono conoscere con verità soltanto ciò che fanno, ma il fare di Dio è creazione di un oggetto reale mentre il fare dell'uomo e semplice creazione di un oggetto fittizio. la conoscenza umana per sopperire alla mancata presenza in essa degli elementi di cui risultano fatte le cose, deve astrarre questi elementi e se ne deve servire come immagine. Ma nonostante questo, l'uomo non può conoscere il mondo della natura perché questo è opera di Dio; può conoscere, invece, con verità il mondo della matematica che è creato grazie alle astrazioni che l'essere umano opera sul reale.
Nella Scienza Nuova ad essere oggetto possibile di conoscenza è il mondo della storia, questa essendo creata dalle azioni umane può essere compresa con la mente umana. La storia secondo Vico deve avere in sé un ordine fondamentale e necessita di una scienza nuova che, forte dei principi prima esposti, si accinga ad analizzarla. Questa nuova scienza deve basarsi sia sulla filologia che sulla filosofia; la prima, in quanto coscienza del certo, deve completarsi con l'analisi portata avanti dalla seconda che viene definita coscienza del vero e solo procedendo assieme queste due branche della nuova scienza possono portare a inverare il certo e accertare il vero.
la scienza della storia appare a Vico come una teologia civile e ragionata della provvidenza divina, ovvero gli appare come un ordine voluto da Dio che si va attuando gradualmente nella società umana a misura di quanto l'uomo si sia riuscito ad alzare dalla sua caduta, dalla sua miseria primitiva. La storia si muove nel tempo ma tende ad un ordine ideale ed eterno. proprio questo ordine provvidenziale è ciò che Vico chiama storia ideale eterna tenendoci a precisare che sopra di essa corrono nel tempo le storie delle singole nazioni. La storia ideale eterna è la struttura che sorregge il corso temporale della storia delle singole nazioni e che perciò trasforma la semplice successione cronologica degli avvenimenti in un ordine ideale progressivo. La storia ideale eterna rappresenta il modello della storia reale e quindi il criterio e il canone per giudicarla; essa è il dover essere della storia nel tempo, senza che questo annulli la libertà e la problematicità della storia reale.
Vico distingue nella storia ideale la successione di tre età: quella degli dei, quella degli eroi e quella degli uomini. Inoltre, dato che la storia è opera dell'uomo le leggi del suo funzionamento e del suo sviluppo saranno le stesse che regolano il funzionamento della mente umana, ovvero i gradi ascendenti della chiarezza che sono senso, fantasia e ragione. Dunque ai tre periodi della storia ideale eterna corrisponderanno le sempre maggiori capacita razionali acquisite dall'uomo.
La libertà, in simile concezione, non è messa in forse perché la presenza di questo ordine provvidenziale non implica necessariamente che la storia reale delle singole nazioni segua per forza di cose il tracciato della storia ideale eterna. 
Vico, inoltre, afferma che la storia reale è soggetta al ciclo dei corsi e ricorsi, ovvero è soggetta al ritorno della storia sui suoi passi.

Riassunto Hume


David Hume nacque ad Edimburgo il 26 aprile del 1711. Dopo gli studi di giurisprudenza e un fallimentare tentativo di fare l'avvocato, si recò in Francia dove rimase per tre anni. Tra il 1745 e il 1748 ebbe vari incarichi politici tra cui quello di segretario del generale St. Clair che lo condusse a Vienna e a Torino. Nel 1763, dopo aver ricoperto la carica di bibliotecario ad Edimburgo, divenne segretario del conte di Hartford e ambasciatore dell'Inghilterra a Parigi dove rimase fino al 1766. tornato in Inghilterra ospitò Jean Jacques Rousseau. Morì il 25 agosto del 1776 nella sua città natale.
Scrisse il Trattato sulla natura umana, i Saggi morali e politici, la Ricerca sull'intelletto umano, la Ricerca sui principi della morale, la Storia naturale della religione e i Dialoghi sulla religione naturale.
La speculazione di Hume tende a stabilire, come presupposto per qualsiasi altra scienza, l'esigenza di conoscere la natura umana. Soltanto partendo da questo punto, ovvero dalla capacità di individuare e analizzare i meccanismi che generano il funzionamento della mente umana, avremo solide basi sulle quali costruire l'edificio del sapere. Soltanto conoscendo i principi della natura umana possiamo muovere alla costruzione di un sapere stabile e duraturo, un sapere che ha solide fondamenta e che su queste eleva le varie scienze.
Divido l'analisi della filosofia di Hume in due sottosezioni, una dedicata a questioni più specificamente metafisiche e epistemologiche, potremmo anche dire più critiche, l'altra è invece centrata sull'analisi pratica e morale dell'agire umano.

Il criticismo
Hume divide le percezioni della mente in due classi: le impressioni, ovvero quelle percezioni che penetrano con maggiore forza ed evidenza nella coscienza e le idee o pensieri che sono le immagini illanguidite delle impressioni. Le idee derivano sempre da un'impressione avvenuta precedentemente, non esistono idee o pensieri senza impressione corrispondente. L'uomo ha la capacità di comporre le idee tra di loro ma non giungerà mai al di là delle impressioni che corrispondono a queste; la realtà dell'uomo in ultima analisi si identifica sempre con la somma delle sue impressioni. Secondo Hume, inoltre, la vera realtà è costituita esclusivamente dalle impressioni sensibili, dalle idee e dalle loro copie, per cui è solo il principio di associazione che ce fa considerare la realtà così come la vediamo e crediamo. Soltanto il principio di associazione, ovvero il principio che ci consente di stabilire relazioni tra idee è il responsabile della nostra particolare visione della realtà. Esso opera secondo tre criteri: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causalità. Le idee complesse non sono altro che associazioni di idee fatte, però, senza alcuna impressione precedente; esse sono soltanto delle nostre maniere di sentire. Spazio e tempo, per fare un esempio, non esistono realmente di per se, è solo il nostro spirito che dispone le impressioni e le idee in questo modo. Non esiste un'impressione del tempo o dello spazio, è solo il nostro modo di procedere che ci impone di considerare questa prospettiva. Della stessa categoria sono le idee di causa e di effetto, di sostanza materiale o spirituale.
Hume distingue tra proposizioni che concernono rapporto tra sole idee e proposizioni che concernono dati di fatto, le prime sono semplici ed esclusive operazioni del pensiero e così possono essere analizzate e conosciute, le seconde, invece, non essendo fondate come le prime sul principio di non contraddizione hanno sempre bisogno dell'esperienza per essere dimostrate.
Tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si si fondano sulla relazione causa effetto, questa non può mai essere conosciuta a priori, ovvero con il puro ragionamento, per essere dimostrata ha bisogno dell'esperienza rimanendo arbitraria e priva di necessità. È soltanto l'uomo a credere necessario il rapporto di causa effetto, anche dopo che l'esperienza ci ha dimostrato una relazione, questa non può illuminarci sul futuro, è soltanto l'uomo ad essere spinto dalla sua natura a vedere le cose in questo modo. È un principio della natura umana considerare relazioni causali tra cose come relazioni certe ed eterne, mentre sono soltanto soggettive e legate all'abitudine. L'abitudine ci dà la sicurezza che il corso della natura si mantiene regolare e costante in modo da permetterci di regolarci per il futuro; ma essa spiega soltanto la connessione soggettiva che l'uomo stabilisce tra i fatti, non spiega la connessione necessaria tra questi, spiega perché noi crediamo alla connessione casuale tra i fatti ma non ci illumina sulla necessità di simile connessione.
Credere nella realtà dei fatti è istintivo non è un atto di ragionamento; la credenza nella realtà così come la percepiamo è dovuta alla forza maggiore che hanno le impressioni rispetto alle idee. Le immense moli di impressioni che colpiscono l'uomo fanno in modo che egli non considera i salti e le discontinuità che le separano ma le intende in modo unitario e concreto trasformando, così, le immagini dei sensi in oggetti esterni. La mente, invece, concepisce soltanto le immagini e le percezioni dell'oggetto e questo tramite i sensi che sono come una porta tramite la quale le immagini giungono a noi. La sola realtà di cui siamo veramente certi è costituita dalle percezioni. La realtà esterna è quindi ingiustificabile e indimostrabile, ma l'istinto dell'uomo a credere in essa è ineliminabile.
Lo stesso ragionamento fatto per la realtà del mondo e per la nostra tendenza a credere in essa e in questo modo, si applica, secondo Hume, anche alla realtà dell'io. Dell'io noi non abbiamo esperienza o impressione; quello che consideriamo io è soltanto un grande fascio di impressioni diverse e discontinue che siamo in quanto uomini siamo naturalmente protesi a definire io.

Morale, religione e politica
Alla base della morale e dello specifico sentimento che la costituisce c'è, secondo Hume, la percezione dell'utilità sociale di certi comportamenti; approvazione e riprovazione vero determinati tipi di comportamenti si fondano, infatti, sul riconoscimento implicito o esplicito della loro utilità collettiva.
L'utilità politica è anche il fondamento delle virtù politiche, come la giustizia e l'obbedienza senza le quali le società umane non potrebbero esistere. Il benessere e la felicità individuali sono congiunti indissolubilmente con il benessere e la felicità collettivi.
Hume distingue i doveri in due classi: i doveri verso i quali l'uomo è spinto da un istinto naturale e i doveri che derivano da un senso di obbligo connesso alla società umana
Per quanto riguarda la religione, Hume afferma che l'esistenza di Dio è sempre materia di fatto o di esperienza, per cui non può mai essere dimostrata e provata con argomentazioni puramente logiche. Si può fare tuttavia la storia naturale della religione, ovvero si possono rintracciare le sue radici nella natura umana. Fa parte dell'uomo sperare e temere e proprio in base a queste caratteristiche dell'uomo che sorge la certezza nell'esistenza di cause segrete e sconosciute da cui si genera la religione. Una volta concepita la divinità essa assume i tratti di perfezione e infinitezza e viene adorata dall'uomo che in questo modo crede di tenersela buona. All'origine della religione c'è sempre il politeismo, è soltanto la riflessione filosofica che presenta le varie visioni monoteistiche della divinità senza però poterne mai dare ragione. Nei secondi tipi di doveri rientrano la giustizia e il rispetto delle proprietà altrui, la fedeltà e l'obbedienza politica e civile. La sola ragione della politica e dell'obbedienza è che senza di esse la società non potrebbe esistere.

Riassunto Berkeley


George Berkeley nasce a Dysert in Irlanda il 12 marzo del 1685. si laurea a Dublino e nel 1728 parte verso le isole Bermude, spinto dal suo sogno di civilizzare e evangelizzare le popolazioni indigene americane. Fermatosi a Rhode-Island vi rimane per tre anni. Nel 1731 torna a Londra dove venne nominato vescovo di Cloyne in Irlanda. Nel 1752 si trasferisce ad Oxford dove il 20 febbraio dell'anno successivo muore.
Opere di Brekeley sono il Saggio di una nuova teoria della visione, il Trattato sui principi della conoscenza umana, i Dialoghi tra Hylas e Philonous, l'Alcifrone e la Siris.

Secondo Berkeley tutte le speculazioni filosofiche a lui precedenti sono sempre incorse in errore perché hanno sempre considerato valida la capacità dell'uomo di formulare idee astratte. Questo non è vero l'idea di una cosa è sempre l'idea di una cosa particolare. Pensare ad una cosa è sempre avere in mente una cosa specifica e determinata.
I soli oggetti della conoscenza umana sono le idee. Queste per esistere hanno bisogno di essere percepite per questo Berkeley afferma che il loro essere consiste nel loro essere percepite (esse est percipi) e per questo non possono esistere al di fuori degli spiriti o delle menti che le percepiscono. L'oggetto e la percezione sono la stessa cosa e non possono essere astratti l'uno dall'altro. Inoltre, l'oggetto della percezione è soltanto un'idea e questa non può esistere senza essere percepita. L'unica sostanza reale è dunque lo spirito che percepisce le idee.
Le idee sono assolutamente inattive e non possono produrre nulle; attivo è soltanto lo spirito che le percepisce. Attivo è quindi il nostro spirito che percepisce le idee e le unisce o divide a suo piacimento. Nello stesso tempo però, lo spirito non ha alcun potere sulle idee che percepisce attualmente, ovvero sulle idee delle cose naturali; queste sono percezioni più forti delle idee semplicemente immaginate e per questo motivo devono essere prodotte in noi da uno spirito superiore, che è Dio. Quelle che noi chiamiamo leggi della natura sono soltanto le regole fisse tramite cui Dio produce in noi le idee dei sensi. Noi apprendiamo queste regole dall'esperienza e così siamo in grado di prepararci ai bisogni della vita.
Per ricapitolare, le idee che noi chiamiamo cose naturali sono prodotte in noi da Dio mentre quelle che noi chiamiamo idee sono nient'altro che immagini delle prime. Le idee quando non sono percepite da noi sono percepite da Dio; esse non sono create dal nostro spirito ma sono esterne ad esso. Una volta bandita la materia, che nel sistema di Berkeley non trova alcuno spazio in quanto la stessa idea di materia esiste soltanto nell'essere percepita e non autonomamente, non si può far altro che ricorrere a Dio per spiegare l'origine, l'ordine e la bellezza delle nostre idee sensibili e la stessa esistenza delle cose sensibili diventa la dimostrazione immediata dell'esistenza di Dio. La natura e il suo studio acquistano subito una valenza religiosa, giacché rendersi conto delle leggi naturali equivale a interpretare il linguaggio attraverso il quale Dio ci rivela i suoi attributi e ci conduce verso la felicità. La scienza della natura in Berkeley si identifica con una sorta di grammatica del linguaggio divini e la filosofia acquista la forma della vera lente di ingrandimento per comprendere questo linguaggio.
Questa concezione della natura dell'uomo e del mondo ha assunto il nome di immaterialismo e come tale rende indubitabile anche l'immortalità dell'anima. Abbiamo affermato che dal punto di vista di Berkeley le idee sono passive mentre lo spirito è attivo, per cui l'unico ad agire è lo spirito che si rivela essere la nostra vera molla di interpretazione del linguaggio divino. Lo spirito e le idee sono così diversi tra di loro che non si può affermare neanche che si ha un'idea dello spirito. Conosciamo lo spirito con assoluta certezza ma questa certezza non la si può chiamare idea bisogna, invece, chiamarla nozione. Conosciamo gli spiriti diversi dal nostro soltanto attraverso le idee che, producono in noi ma non possiamo averne nozione; ci è, invece, possibile avere nozione soltanto in merito al nostro spirito, una nozione che si dimostra permanente e semplice, estranea ad ogni composizione per cui immortale.

Riassunto Locke

John Locke nasce a Wrington il 29 agosto del 1632. Studia a Oxford e insegna nella stessa università. Nel 1667 diventa segretario di Lord Ashley, questi prima diventa conte di Shaftesbury ma in un secondo momento cade in disgrazia agli occhi di Carlo II e Locke è costretto a ritirarsi in Francia. Dopo quattro anni il conte era tornato al potere e Locke è di nuovo al suo fianco in Inghilterra, ma nel giro di pochi mesi il conte è accusato di tradimento per cui fugge in Olanda, anche per Locke la situazione si fa difficile e nel 1683 si reca in volontario esilio in Olanda dove rimane fino al 1689 e dove conosce Guglielmo d'Orange. Al suo ritorno in Inghilterra è ormai il rappresentante illustre della nuova mentalità liberale e rimane a pochi minuti da Londra, specificamente ad Essex, fino alla morte avvenuta nel 1704.
Scrive l'Eppistola sulla tolleranza, Due trattati sul governo civile, nel 1690 esce il Trattato sull'intelletto umano, la Condotta dell'intelletto, l'Esame di Malebranche, i Pensieri sull'educazione, la Ragionevolezza del cristianesimo.

Mente, ragione e idee
Secondo Locke la ragione non è infallibile, non è neanche uguale in tutti gli uomini che, infatti, ne partecipano in maniera diversa. Essa deve ricavare le idee e i principi che utilizza dall'esperienza perché è impossibile che possa ricavarli da se stessa che è sempre limitata e condizionata. Nonostante sia imperfetta e debole, però, la ragione è l'unica guida a cui l'uomo possa affidarsi. Bisogna allora preliminarmente stabilire i limiti che la ragione non può superare, questi limiti sono una sua parte costitutiva e risultano costitutivi dello stesso uomo in quanto la ragione è ciò che lo contraddistingue. Da dove nascono questi limiti della ragione? Secondo Locke essi nascono dal fatto che la ragione è sempre costretta a fare i conti con l'esperienza. È l'esperienza che fornisce alla ragione il materiale che adopera; la ragione può combinare in diverso modo questo materiale, ma è sempre l'esperienza che deve controllare queste combinazioni. La ragione non può da sola avventurarsi in campi in cui l'esperienza non può svolgere la funzione di controllo.
Per Locke oggetto della nostra conoscenza sono le idee; pensare e avere idee è la stessa cosa. Come detto le idee derivano sempre dall'esperienza che può essere interna o esterna, per cui le idee saranno idee di sensazione se derivano dal senso esterno e idee di riflessione se derivano dal senso interno. Esistere per un'idea equivale ad essere pensata, ma ciò non ci consente di considerarle innate dato che abbiamo sottolineato come esse derivino esplicitamente dall'esperienza.
L'esperienza ci fornisce soltanto idee semplici, mentre le idee complesse sono frutto dell'attività della nostra ragione che unisce tra di loro varie idee semplici. La conoscenza umana si fonda proprio su questa capacità di combinazione propria dell'intelletto; ma neanche l'intelletto più perfetto che esiste può creare dal nulla un'idea semplice, questa proviene sempre dall'esperienza. Questo è il limite insuperabile dell'intelletto umano.
Le idee complesse si lasciano ricondurre a tre categorie fondamentali: modi, sostanze e relazioni. I modi sono quelle idee non considerate sussistenti di per se, ma solo come manifestazioni di una sostanza. Sostanze sono le idee complesse considerate esistenti anche da sole. Relazioni sono quelle idee che nascono dal confronto di un'idea con un'altra. La sostanza, però, secondo Locke non è nient'altro che il sostrato che noi vediamo quando più idee semplici sono sempre legate tra loro; la nostra mente considera queste varie idee che noi percepiamo sempre unite come un'unica idea semplice e le attribuisce un sostrato che ne rappresenta la base. Dunque l'idea alla quale noi diamo il nome di sostanza non è nient'altro che tale supposto ma sconosciuto sostegno delle qualità effettivamente esistenti.
La categoria delle idee che viene presentata sotto il nome di relazioni mostra come l'intelletto non si limita a considerare le idee isolatamente ma tenda a riconoscere i rapporti che intercorrono tra di loro. Le relazioni fondamentali sono quelle di causa, effetto, identità e diversità.
Inoltre, l'uomo, oltre a percepire, percepisce di percepire e questo fa in modo che le varie sensazioni costituiscano un unico io che ci è presente come fondamento dell'unità della persona.
Il nostro intelletto elabora anche idee generali che, però, secondo Locke altro non sono che segni delle cose particolari tra le quali intercorre una certa somiglianza.
L'esperienza fornisce il materiale della conoscenza ma non si identifica con la conoscenza stessa. Questa ha sempre a che fare con le idee ma non si riduce alle idee. La conoscenza è, piuttosto, la percezione di un accordo o un disaccordo delle idee tra di loro. Come tale essa può essere di due specie diverse: intuitiva, quando l'accordo o il disaccordo è visto immediatamente senza l'intervento di altre idee; e è dimostrativa quando si usano idee intermedie oltre quelle analizzate per sottolineare il loro accordo o il loro disaccordo. Le conoscenze intuitive sono le più certe ed in ultima analisi anche le conoscenze dimostrative si rivelano nient'altro che una catena di conoscenze intuitive. La certezza della dimostrazione si fonda su quella dell'intuizione.
Accanto a questi due tipi di conoscenza si affianca anche la conoscenza delle cose che esistono al di fuori delle idee.
Secondo Locke esistono tre ordini della realtà: l'io, Dio e le cose; e parallelamente ci sono tre modi di accedere alla certezza di queste realtà. Per quanto riguarda l'io Locke si avvale del procedimento cartesiano, penso dunque sono. Per ciò che riguarda la conoscenza di Dio, il nulla non produce nulla per cui si deve ammettere l'esistenza di un essere sommo che ha dato vita a tutto ciò che esiste. Per quanto riguarda l'esistenza delle cose esterne, l'uomo ha soltanto la sensazione e, nello specifico, quella attuale che gli consente simile conoscenza. Non esiste un rapporto necessario tra l'idea e la cosa cui essa si riferisce (un'idea immaginaria ad esempio non si riferisce a nulla di esistente). Ma il fatto che noi riceviamo attualmente l'idea dall'esterno ci spinge ad affermare che esiste in questo momento qualcosa fuori di noi e che questo qualcosa produce in noi l'idea. Per Locke la fiducia nelle nostre facoltà è indispensabile anche perché non possiamo conoscere queste facoltà se non adoperandole. La certezza che la sensazione attuale ci dà rispetto all'esistenza delle cose esterne, pur non essendo assoluta, è sufficiente per la conoscenza e la vita dell'uomo.
Accanto al dominio della conoscenza certa egli ammette anche il dominio, molto più vasto, della conoscenza probabile. Quando l'oggetto non è più testimoniato dai sensi alla certezza si sostituisce la probabilità che afferma la verità o la falsità di una proposizione non per la sua evidenza ma per la sua conformità con l'esperienza.

Politica
Locke è uno dei primi fautori del liberalismo. Sostenitore delle libertà civili e delle libertà religiose, sia in merito alle questioni di fede che in merito alle questioni più squisitamente politiche. Secondo il nostro, esiste una legge di natura; questa è la ragione stessa che ha per oggetto i rapporti tra gli uomini e prescrive la reciprocità perfetta di tali rapporti. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che collega tutti; e la ragione, la quale è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare l'altro nella vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà.
Lo stato di natura così costituito rischia, però, di diventare stato di guerra quando più persone usano la forza per ottenere un controllo sulla libertà, sulla vita e sui beni degli altri. Per evitare questa situazione gli uomini si uniscono in società, ma la costituzione di questo potere civile non toglie agli uomini i diritti di cui godevano nello stato di natura. Dunque lo stato deve rispettare diritti e libertà individuali ponendosi soltanto come arbitro e controllore contro eventuali soprusi.
Anche per quanto riguarda la fede religiosa Locke si mostra molto tollerante. Lo Stato promuove i beni materiali ma nel campo dei beni spirituali non ha voce in capitolo; qui subentra la fede. La salvezza dell'anima dipende dalla fede ma la fede non può essere imposta con la forza. Inoltre, la chiesa nasce come libera comunità di uomini che si riuniscono per adorare nel modo che credono opportuno la divinità, per cui non deve avere nulla a che fare con beni materiali e civili.

martedì 24 aprile 2012

Riassunto Pascal


Blaise Pascal nasce a Clermont il 19 giugno del1623. Nel 1654, a 31 anni, entrò a far parte dei solitari di Port-Royal, una comunità religiosa priva di regole determinate, i cui membri, dediti alla meditazione, allo studio e all'insegnamento, si rifacevano alla dottrina di Giansenio. Giansenio pensava che il peccato originale aveva tolto all'uomo ogni possibile strada per giungere alla salvezza, soltanto il diretto intervento divino poteva selezionare pochi uomini da eleggere alla grazia; questa dottrina entra subito in contrasto con la concezione più rilassata dei gesuiti che intendeva la grazia come un ché sempre alla portata dell'uomo, bastava la volontà e una vita buona per salvare l'uomo dal peccato originario. Le due posizioni entrano in contrasto e nel 1653 il papa Innocenzo X condannava dieci tesi gianseniste. Il 23 gennaio 1656 Pascal pubblica la prima di diciassette lettere in difesa dello giansenismo Lettera scritta a d un provinciale da uno dei suoi amici intorno alle dispute attuali della Sorbona. Con il proposito di elaborare un Apologia del cristianesimo, si spense il 19 agosto del 1662, la sua opera incompiuta fu raccolta dai suoi amici e pubblicata nel 1669 con il titolo di Pensieri.

Vita e senso della vita
Tutta la speculazione di Pascal parte dalla necessità di dare risposte concrete agli interrogativi esistenziali che si pone ogni uomo. Chi è l'uomo, che ruolo ha nella storia, nella vita, e che cosa è il mondo e chi lo ha creato, sono i classici interrogativi a cui non si riesce a dare risposta e che in Pascal fungono da base portante e da molla di stimolo per spingerlo all'elaborazione del suo sistema. L'enigma dell'uomo, in questo caso però, non ha alcuna possibile soluzione al di fuori della fede e quindi la speculazione filosofica di Pascal sembra essere indirizzata più ad un'indagine teologica che scientifica.
L'uomo comune non capisce la pesantezza dei problemi esistenziali perché nei loro confronti si comporta come se fosse stordito dall'oblio di sé e dalla molteplicità delle occupazioni quotidiane e delle relazioni sociali, la mentalità che Pascal definisce divertissement. Lo stordimento di sé non crea però felicità perché non da nulla di certo su cui fondare la risposta ai problemi esistenziali, anzi, vela la domanda e venendo dall'esterno dell'uomo genera in lui il turbamento di molteplici accidenti. L'unica strada che può, in questo contesto salvare l'uomo di fronte a se stesso, è non chiudere gli occhi di fronte alla sua miseria costitutiva, accettare lucidamente la sua condizione e tutto quello che comporta. 
Da ciò nasce la differenza sostanziale che egli istituisce tra lo spirito di geometria, e lo spirito di finezza, ovvero la separazione tra ragione e cuore. Nel campo dei problemi esistenziali la ragione mostra la sua incapacità di dare risposta. Già per quanto riguarda la scienza, la ragione ha dimostrato di non poter controllare l'esperienza né i primi principi che sono alla base della scienza. Per quanto riguarda la situazione esistenziale dell'uomo, la ragione è ancora più in difficoltà, non sa spiegare infatti quelle che Pascal chiama ragioni del cuore. Lo spirito di geometria ha per oggetto le cose esteriori e procede dimostrativamente; in contrapposizione a questa Pascal presenta lo spirito di finezza, che ha per oggetto l'uomo e si fonda sul cuore, sul sentimento e sull'istinto. Le cose di finezza non si possono dimostrare poiché non se ne posseggono i principi come invece accade per la geometria. Lo spirito di geometria ragiona intellettivamente, quello di finezza comprende intuitivamente, le cose gli si mostrano in un sol colpo, senza passare attraverso il ragionamento discorsivo. Questo è quanto vuole sottolineare la celebre frase di Pascal: «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».
Ma un certo grado di finezza e quindi di comprensione immediata deve essere alla base anche dello spirito di geometria, i suoi primi principi, infatti, vengono colti proprio attraverso lo spirito di finezza.
Un altro errore della ragione filosofica è quello che si verifica anche nel settore dei principi pratici-morali e politici; infatti, gli uomini, spinti dalla sola ragione, non sono riusciti ad elaborare un'etica immutabile ed universale. Quelli che oggi consideriamo principi universali del comportamento sono nient'altro che frutto di convenzioni o di abitudini, di storia, di forza o di interesse. L'abitudine è come una seconda natura che non fa altro che distruggere la prima. La ragione con le sole sue forze non riesce a fondare solide norme comportamentali e senza l'aiuto della fede l'uomo è destinato a vagare nell'incerto e ad approdare nello scetticismo.

L'uomo e la meta-filosofia
Per Pascal l'uomo occupa nell'ordine delle cose una posizione mediana tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, tra il tutto e il nulla, tra l'ignoranza assoluta e la scienza assoluta. Per questo egli si rappresenta come un desiderio frustrato, un dissidio con sé medisimo che costituisce la sua miseria esistenziale. L'altro faccia della medaglia però presenta in questa posizione mediana che colloca l'uomo tra l'angelo e la bestia, un barlume di grandezza che lo spinge alla ricerca della verità assoluta e che rappresenta la vocazione verso un ordine superiore. È questo ciò che intende Pascal quando afferma che tale situazione mediana fa dell'uomo un mostro incomprensibile, un paradosso di fronte a se stesso, un depositario di verità e una cloaca di incertezza e di errore.
L'unica vera filosofia possibile per l'uomo è una sorta di meta-filosofia consapevole dei limiti della filosofia; questa è al servizio della fede e risulta come la cerniera di chiusura che unisce speculazione scientifica e ricerca della salvezza nella fede. Per Pascal l'uomo è un problema la cui unica soluzione si trova soltanto in Dio.
Tra tutte le religioni l'unica vera è quella cristiana poiché è l'unica che fornisce una risposta al problema dell'uomo e si accorda con la nostra reale condizione. La caduta dell'uomo dopo il peccato originale è l'unica spiegazione per presentare la condizione di un essere che ha perduto la verità, il bene e la felicità e avverte la loro mancanza. L'uomo della religione cristiana è un uomo che nato nell'infinito cerca, ormai e dopo la caduta, nel finito la soddisfazione del proprio desiderio di felicità.

Dio
Per questo motivo Pascal vede nella fede l'unica strada per comprendere non solo l'uomo ma anche il mondo.
La scommessa sull'esistenza di Dio è sempre vantaggiosa per l'uomo. In caso di perdita egli perde soltanto beni finiti, ma se dio dovesse esistere l'uomo che ha scommesso su di lui guadagnerebbe beni infiniti. Rischiare il finito per guadagnare l'infinito ha evidentemente per Pascal la convenienza massima.
Inoltre non si può credere a comando ma bisogna lavorare a gradualmente nella verità della fede, diminuendo le passioni che la ostacolano. L'uomo non può impegnarsi nella fede con la sola ragione ma deve impegnare tutto sé stesso. Trovato Dio, anche la morale diviene qualcosa di saldo poiché i suoi precetti vengono derivati dall'amore di Dio e fondati su di esso.
Fra ragione e fede non vi è soltanto passaggio, ma anche rottura e salto poiché la logica della fede è per sua intrinseca natura metarazionale. La fede è extra-razionale, il suo organo autentico è il cuore.
Inoltre, come sottolineato nelle prime righe di questo post, la fede in Pascal è un esplicito dono di Dio, un dono che non rientra nelle possibilità di scelta dell'uomo ma che può solo essere percepito quando Dio ha scelto quel singolo e determinato uomo.

La filosofia della mente di Searle


«Come possiamo conciliare la nostra concezione di noi stessi e della realtà umana con ciò che, a livello più profondo, conosciamo della realtà grazie alla fisica e alla chimica? Come è possibile che, in un universo composto interamente di particelle fisiche immerse in campi di forza, possono esservi cose come la coscienza, l’intenzionalità, il linguaggio, il libero arbitrio, la società, l’etica, l’estetica e gli obblighi politici?». «La nostra spiegazione della mente, in tutti i suoi aspetti – la coscienza, l’intenzionalità, il libero arbitrio, la causalità mentale, la percezione, l’azione intenzionale, ecc. – è naturalistica in questo senso: in primo luogo tratta i fenomeni mentali come parte della natura. Dobbiamo considerare la coscienza e l’intenzionalità come aspetti del mondo naturale quanto la fotosintesi e la digestione. In secondo luogo, l’apparato esplicativo usato per fornire una spiegazione in termini causali dei fenomeni mentali è necessario per spiegare la natura in generale. Il nostro tentativo di spiegare i fenomeni mentali si esprime a livello biologico, e non, per esempio, a livello di fisica subatomica. La ragione di ciò è che la coscienza e gli altri fenomeni mentali sono fenomeni biologici: sono creati da processi biologici e sono specifici di certi tipi di organismi biologici».
In fin dei conti, non assistiamo alla presenza e all’analisi di due mondi differenti, uno relativo alle entità fisiche e l’altro relativo alle entità mentali, ma siamo sempre di fronte all’unico mondo realmente esistente, quello naturale ed è soltanto nei confronti di questo unico mondo che possiamo individuare diversi atteggiamenti mentali con i quali osservarlo; solo così ci risulta possibile indagare i vari aspetti – linguaggio, mente e società – che costituiscono parti tra loro intrinsecamente legate di questa unica realtà. Il realismo ingenuo di Searle funge da trampolino di lancio per la concezione di una realtà che esiste indipendentemente dalla nostra mente e che necessita sempre di una chiarificazione biologica e naturale. Dando così un’immagine del mondo unitaria, un’immagine del mondo con la quale ogni essere umano è capace di confrontarsi per poi individuare aspetti quotidiani della sua esistenza. Ciò che ci interessa realmente mostrare è la vera e propria filosofia della mente di Searle, una filosofia che parte dalle critiche ai concetti e alle categorie tradizionali, e che ci presenta una nuova veste per la coscienza, l’intenzionalità e le relazioni sociali.
Sarà proprio il concetto di mente cosciente, una mente che come entità biologica e naturale produce una coscienza ugualmente biologica e naturale, a presentarci la possibilità di distinguere tra un’ontologia in prima persona ed una in terza persona; una distinzione che risulta fondante per l’analisi degli stati intenzionali, siano essi privati o collettivi e che, dunque, ci apre anche la strada per una nuova concezione dei rapporti interindividuali.
Schematicamente possiamo dividere questo riassunto completo della speculazione di Searle in alcuni centri focali rilevantissimi che fungono da punti di intersezione e luoghi di incrocio delle varie analisi svolte dal nostro. Possiamo iniziare a definire la speculazione di Searle solo a partendo dalle varie critiche che rivolge alle formulazioni della filosofia della mente contemporanea, possiamo, poi, passare a presentare la concezione che questo pensatore ha della mente; una concezione che egli stesso definisce naturalismo biologico.
Un aspetto che non può essere trascurato e che quindi costituisce il secondo centro dell'analisi sulla speculazione di Searle, è la differenza che egli stabilisce tra i due approcci ontologici che si hanno rispetto ai metodi di analisi delle scienze e ai metodi che analizzano la mente. Secondo Searle, l’approccio che considera valido esclusivamente il punto di vista in terza persona è caratteristico delle scienze forti come la chimica, la fisica, la biologia, questo non può annoverare tra i suoi oggetti di studio entità che hanno un’ontologia soggettiva, come la mente e la coscienza; ed è per questo che egli rivendica la necessità, per quanto riguarda gli eventi mentali, linguistici e sociali, di un’analisi che non tralasci le particolarità che accompagnano l’essenza di ogni uomo. L’analisi della mente non può, in altre parole, eliminare entità come la coscienza e l’intenzionalità unicamente richiamandosi ad un approccio scientifico ed in terza persona, una simile mossa ci porterebbe ad una totale perdita di contatto con la realtà umana, una realtà fatta di pensieri soggettivi e di entità, come l’intenzionalità e la coscienza, che solo da un punto di vista in prima persona possono chiarire il loro senso, la loro formazione e il loro scopo.
Uno spazio importante sarà dedicato alla trattazione delle differenti forme dell’intelligenza artificiale, cosa che rende il nostro conosciuto e apprezzato dal punto di vista internazionale ma che non lo salverà dal ricevere dure critiche. Searle introduce una netta distinzione tra forma debole e forma forte di intelligenza artificiale. Il punto conclusivo della critica che Searle rivolge alla versione forte dell’intelligenza artificiale è che soltanto esseri capaci di significazione sono in grado di avere una vera e propria attività cosciente. Per mostrare ciò egli ricorre al rinomato argomento della stanza cinese.
Per concludere, non possiamo esimerci dal presentare un'analisi dell'intenzionalità, analisi che fungerà da anello di giuntura con concetti come collettività, società, potere. È, infatti, solo a partire dall’analisi dell’intenzionalità, prima nella sua forma privata poi nella sua forma collettiva, che possiamo presentare e chiarire il concetto di attribuzione di funzioni di status, di regole costitutive e di realtà istituzionale; concetti, questi, che sono alla base della società umana e delle relazioni interindividuali e di potere che in essa si costituiscono. Possiamo affermare che Searle in realtà, durante tutta la sua carriera di pensatore analitico, ha scritto un unico libro; un libro che parte dall’analisi del linguaggio e che, passando dall’analisi della coscienza e dell’intenzionalità, giunge alla chiarificazione della società e della razionalità umana. Possiamo dire, insomma, che lo scopo dell’immenso lavoro di Searle è la realtà in quanto tale, in tutte le sue pieghe e in tutte le sue manifestazioni.
Con la sua speculazione Searle ci fornisce l’immagine reale di un uomo di fronte a se stesso e alla sua vita, l’immagine di un uomo che altro non è se non la realtà della sua vita naturale. Spinta propulsiva in una simile selva di pressanti problemi è la ricerca della realtà; una realtà unica e sfuggente, una realtà apparentemente in alcuni aspetti soggettiva ed in altri oggettiva, una realtà cui soltanto un essere dotato di mente/cervello, come solo l’uomo è, può dare un senso ed una direzione.
«L’opposizione tradizionale che tendiamo a tracciare tra biologia e cultura è altrettanto fuorviante di quella tra mente e corpo. Così come gli stati mentali sono caratteristiche di livello superiore del nostro sistema nervoso, e di conseguenza non c’è opposizione tra il mentale e il fisico, in quanto il mentale è semplicemente un insieme di caratteristiche fisiche del cervello a un livello superiore di descrizione rispetto a quello dei neuroni; così non c’è opposizione tra cultura e biologia: la cultura è la forma che prende la biologia». Dunque, anche le riflessioni sulla cultura e sulla società si richiamano all’idea fondante di tutta la sua indagine, per cui non esiste che un unico mondo, quello biologico e naturale, in cui fenomeni come la coscienza, l’intenzionalità, la socialità, il potere, non sono altro che fenomeni biologicamente definibili e che soltanto da una simile definizione possono acquisire senso.
Soltanto la comprensione del reale funzionamento biologico del cervello sarà in grado di aprirci alla comprensione di un fenomeno altrettanto naturale come quello della nostra mente. In essa stati intenzionali, coscienza e socialità, appariranno in fine come entità esclusivamente biologiche e naturali che soltanto una spiegazione biologica e naturale potrà chiarire. Una spiegazione, questa, che risulta l’unica spiegazione reale e plausibile per processi che non fanno appello a nulla che vada al di la delle loro componenti biologiche e delle loro implicazioni naturali.
«Non esiste un mondo scientifico. Non esiste che il mondo, e ciò che proviamo a fare è descrivere come funziona e come noi ci collochiamo in esso. Per quanto ne sappiamo, i suoi principi fondamentali sono individuati dalla fisica atomica e, per la piccola parte che ci riguarda, dalla biologia evolutiva. Noi non viviamo in molti – ma nemmeno in due – mondi diversi: un mondo mentale ed un mondo fisico, un mondo scientifico ed un mondo del senso comune. Non c’è che un unico mondo: è il mondo in cui tutti viviamo, e dobbiamo spiegare come esistiamo in quanto parte di esso».

Coscienza e naturalismo biologico
La filosofia della mente, all’alba della sua nascita, viene presentata come evoluzione necessaria degli studi che pretendevano di chiarire la nascita e lo sviluppo del linguaggio; dunque, come accade anche nella riflessione di Searle, la filosofia del linguaggio sarà la strada che aprirà le porte alla filosofia della mente per fare di questa la base per la chiarificazione della stessa filosofia del linguaggio.
I vari approcci alle riflessioni sulla mente e sul mentale si possono schematicamente presentare come scissi in due grandi filoni: il monismo, con le sue varianti idealiste e materialiste, ed il dualismo, a sua volta diviso in due filoni portanti, ovvero il dualismo di sostanza ed il dualismo di proprietà.
«La storia della filosofia della mente degli ultimi cent’anni è in gran parte costituita dal tentativo di sbarazzarsi del mentale dimostrando che non esiste alcun fenomeno mentale oltre ai fenomeni fisici». Questo è il risultato ambito dal materialista che per raggiungerlo tralascia categorie fondamentali come la coscienza e l’intenzionalità. Il problema, secondo Searle però, è dare una spiegazione materialistica completamente soddisfacente della mente che non finisca per negare il fatto ovvio che noi siamo intrinsecamente dotati di stati coscienti e di stati intenzionali.
Nonostante le apparenze, tutto il dibattito che ha distinto la filosofia della mente negli ultimi cinquanta anni si è articolato esclusivamente attorno al tema del rapporto mente-corpo.
A questo punto è evidente l’avversione di Searle al materialismo, un’avversione che lo ha spinto a negare la validità delle varie forme che il materialismo ha assunto nella storia (comportamentismo, fisicalismo, teoria dell’identità, eliminativismo); «intendo infatti insistere senza posa sul fatto che è possibile accettare le semplici verità della fisica – ad esempio che il mondo è interamente costruito da particelle fisiche in campi di forza – senza per questo negare i dati che emergono dall’esperienza individuale – ad esempio che tutti noi siamo coscienti e che i nostri stati coscienti hanno specifiche proprietà fenomenologiche irriducibili».
L’intera discussione nasce dalla falsa assunzione secondo cui, se si ammette che la realtà è spiegabile interamente in termini fisici, non si può contemporaneamente ammettere che in essa trovano posto stati soggettivi, ovvero stati qualitativi, privati, immateriali, non fisici, soggetti a stimoli e coscienti, come ad esempio i pensieri e i sentimenti.
Il materialismo, curiosamente, finisce per ereditare le peggiori assunzioni del dualismo, sia quando nega che vi siano due tipi di sostanze nel mondo, sia quando nega che vi siano due tipi di proprietà, esso accetta, in realtà e senza accorgersene, le categorie e il lessico del dualismo e le stesse coordinate entro cui Cartesio impostò ai suoi esordi questo dibattito.
Per trarre una conclusione sulla posizione searleana possiamo dire che il celebre problema mente-corpo, dal quale per più di duemila anni sono scaturite tante controversie, ha una semplice soluzione che è a disposizione di qualunque persona di cultura da quando, circa un secolo fa, si cominciarono a svolgere ricerche serie sul cervello. Questa posizione, che viene definita da Searle naturalismo biologico, afferma che i fenomeni mentali causati dai processi neurofisiologici cerebrali sono a loro volta proprietà del cervello. Gli eventi e i processi mentali sono parte della nostra storia naturale, così come lo sono la digestione, la mitosi, la meiosi e la secrezione di enzimi. Searle afferma esplicitamente che la sua «etichetta per questa concezione è “naturalismo biologico”: “naturalismo” perché, da questo punto di vista, la mente è parte della natura, e “biologico” perché il modo di spiegazione dell’esistenza dei fenomeni mentali è biologico – da opporre, per esempio, a computazionale, comportamentistico, sociale o linguistico».
Di per sé il naturalismo biologico solleva un gran numero di interrogativi, e non ci si può arrogare il diritto di rispondere ad essi armandosi dell’univocità del materialismo. Questi sono gli interrogativi che, agli occhi di Searle, devono dar da pensare ai filosofi della mente, e per questa finalità pretendere di accettare a-priori una visione materialistica, solo apparentemente supportata dall’oggettività scientifica, significa minare alle basi la stessa speculazione sulla mente e porre i presupposti per il suo effettivo allontanamento dalle realtà umana. Solo un punto di vista naturalistico e biologicamente motivato può darci gli strumenti necessari per affrontare questi interrogativi e aprirci la via maestra per arrivare alla soluzione di questi annosi problemi.
Un’analisi della mente e del mondo naturale che pretenda di giungere all’oggettività scientifica non può non tener presente le caratteristiche soggettive che si associano al fenomeno dell’esperienza individuale e che non per forza pregiudicano la possibilità di un’analisi scientifica della mente.
Il classico problema mente-corpo, è una questione centrale. Searle sostiene che sia la mente che il corpo sono fenomeni naturali e biologici, lo studio dei quali pretende sia l’utilizzo di un’ontologia soggettiva che di un’ontologia in terza persona e quindi più oggettiva. Il mondo, dunque, è unico, è sia mondo umano che mondo naturale; pretendere di separare gli aspetti umani dagli aspetti naturali non può far altro che portarci ad un’eterna confusione e precluderci una reale comprensione dell’unica realtà che tutti viviamo.
Negli ultimi anni il tema della coscienza è tornato prepotentemente al centro degli interessi degli studiosi. Ciò non sorprende per almeno due motivi: da un lato, abbiamo assistito ad un fiorire di indagini empiriche, rese possibili dallo sviluppo di nuove metodologie, dall’altro il dibattito filosofico sembra aver individuato nella discussione sulla coscienza l’ultimo bastione dell’assalto che il riduzionismo muove alle posizioni che in svariati modi difendono l’idea dell’autonomia del mentale. Quasi tutti gli studiosi che si occupano della questione sembrano condividere l’adesione all’approccio naturalistico, anche se, come vedremo, per Searle il loro naturalismo riduzionista è un colossale errore. Infatti, la parola naturalismo risulta già ambigua di per sé: nella sua forma più cruda essa equivale a sostenere che tutti i problemi filosofici derivanti dalle indagini sulla mente possano essere risolti entro la cornice delle scienze naturali attuali, ovvero, con l’approccio naturalistico tradizionale si tenderebbe, secondo Searle, a eliminare la coscienza e tutto il resto dei fenomeni mentali unicamente a favore di un approccio, per così dire, scientifico e materialistico.
Searle riguardo a questa questione sostiene che «includendo le leggi naturali nella descrizione dell’universo fisico (e devono essere incluse perché ne sono parte costitutiva) l’esistenza della coscienza segue come conseguenza logica di tali leggi».
Ci sono due tipi di coscienza: il primo tipo è la coscienza fenomenica, ovvero l’esperienza soggettiva in prima persona, associata al possesso di stati qualitativi, di un punto di vista, di una prospettiva. La coscienza fenomenica designa in questo senso quel campo di realtà che costituisce l’esperienza di soggetti viventi, considerata, per così dire, in sé stessa, nella sua natura qualitativa e intrinseca. Il secondo tipo di coscienza potrebbe essere definito coscienza cognitiva e riguarda il costrutto teorico di una scienza della mente che, per esempio, concepisce gli stati mentali come la base interna del comportamento, ovvero come un insieme di fenomeni che è rilevante per la genesi causale e la spiegazione del comportamento.
Le proprietà cognitive della coscienza sono così individuate facendo riferimento a proprietà oggettive di sistemi cognitivi. Le scienze cognitive e le neuroscienze contemporanee hanno sì proposto articolati modelli della coscienza psicologica, ma appaiono ben lontane dall’avere affrontato e risolto i problemi posti dall’analisi della mente fenomenologia; sembra che il punto finale delle spiegazioni sulla mente preveda, quasi sempre, una sua eliminazione.
Searle nella sua speculazione è critico nei confronti degli studiosi che accettano l’esistenza della sola coscienza cognitiva a scapito di quella fenomenica, essi si fanno portavoce del fatto che della coscienza cognitiva è possibile una spiegazione funzionale e neurobiologica e, forti di una simile concezione, pretendono di negare la validità della coscienza fenomenica con il suo carattere privato, prospettico e qualitativo, un carattere che dal loro punto di vista la colloca al di là dell’ontologia scientifica ma che per Searle è un carattere immediatamente confermato dalla vita quotidiana; egli afferma, infatti, che partendo dalle leggi naturali «l’esistenza della coscienza segue logicamente da tali leggi, proprio come l’esistenza di ogni altro fenomeno biologico». L’esistenza di proprietà mentali dipende, in ultima analisi, da un’ontologia in prima persona; un’ontologia che si basa sull’esperienza, sull’utilizzo pratico di oggetti e di proprietà di questi che in nessun modo può essere ricondotta al linguaggio e all’analisi metodologica utilizzata dalle scienze forti. Il non poter definire un fenomeno mentale tramite i termini utilizzati dalla fisica atomica, ad esempio, non ci consente di inferire sulla sua non esistenza, non ce lo consente perché di questi enti valutiamo quotidianamente il loro reale stato tramite metodi altri rispetto a quelli delle scienze ordinarie. Accanto alla giovane, promettente ed eccitante scienza cognitiva esiste quantomeno un paradigma di indagine della mente che nega il riduzionismo e l’eliminativismo delle scienze forti e che appare contemporaneamente fruttuoso e rispettabile; si sta parlando dell’approccio allo studio degli eventi reali in prima persona e che solo in prima persona possono essere definiti e presentati se si vuole evitare il rischio di eliminarli. Citando ancora Searle: «non credo affatto che viviamo in due mondi diversi, uno mentale e l’altro fisico – e ancora meno in tre mondi, mentale, fisico e culturale – ma sono convinto che il mondo sia uno e ciò che vorrei descrivere sono le relazioni tra alcune delle molte parti di questo unico mondo».
«Con la tradizione cartesiana abbiamo ereditato una certa terminologia, e con essa un insieme di categorie, che, per ragioni storiche, ci condizionano quando ragioniamo su questi problemi. Il lessico, come tale, non è neutrale, ma cela anzi un numero sorprendente di assunzioni teoriche quasi certamente false». Al contrario Searle ritiene che la coscienza è un fenomeno biologico naturale, essa fa parte della nostra naturale vita biologica così come ne fanno parte la crescita o la digestione. Siamo ciechi nei confronti del carattere naturale e biologico della coscienza e di altri fenomeni mentali, a causa della nostra tradizione filosofica che ha trasformato il mentale e il fisico in due categorie che si escludono reciprocamente. L’unica via d’uscita sta, allora, nel rifiutare decisamente sia il materialismo che il dualismo e nell’accettare che la coscienza è un fenomeno mentale qualitativo, soggettivo e allo stesso tempo che essa è una parte naturale del mondo fisico. Gli stati coscienti sono qualitativi, nel senso che per ogni stato cosciente c’è qualcosa che qualitativamente sente di essere in quello stato; inoltre sono soggettivi nel senso che essi esistono solamente se vissuti da un soggetto umano. La coscienza è, allora, un fenomeno naturale, biologico, che non rientra in nessuna delle tradizionali categorie del mentale e del fisico. Essa è causata da microprocessi che avvengono nel cervello ad un livello di descrizione inferiore ed è una caratteristica emergente ai macrolivelli superiori. Per accettare questo naturalismo biologico dobbiamo prima di tutto abbandonare le categorie tradizionali e la terminologia ad esse connessa: «Espressioni come mente e corpo, mentale, materiale e fisico, al pari di riduzione, causalità e identità, come sono usate nella discussione del problema mente-corpo, sono la fonte delle nostre difficoltà e non strumenti per il loro superamento».
In che modo esattamente i processi neurobiologici che avvengono nel cervello causano la coscienza? È una cosa particolare pensare al fatto che qualsiasi avvenimento che si verifica nella nostra vita cosciente sia causato da processi cerebrali. Per quanto ne sappiamo, i processi fondamentali hanno luogo ai microlivelli delle sinapsi, dei neuroni, delle colonne di neuroni e delle cellule di unificazione. L’intera nostra vita cosciente è causata da questi processi di livello inferiore, ma abbiamo un’idea confusa di come tutto questo funzioni. Rispetto a questo problema, alcune difficoltà sono di carattere pratico; secondo le indagini attuali, infatti, il cervello umano ha più di cento miliardi di neuroni ed ogni singolo neurone presenta connessioni sinaptiche con gli altri neuroni; altre difficoltà sono di carattere filosofico. Non è problematico, infatti, dare una definizione di senso comune che riguardi la coscienza, essa si riferisce a quegli stati di sensibilità e di consapevolezza che caratteristicamente iniziano quando ci svegliamo e finiscono quando andiamo nuovamente a dormire. Definita in questo modo, la coscienza è un fenomeno interiore, di prima persona e qualitativo. Possiamo dire che il cervello è un organo come gli altri, è una macchina organica. La coscienza, da questa prospettiva, è causata da processi neurali di livello inferiore che avvengono nel cervello ed è essa stessa una caratteristica del cervello. Poiché è una caratteristica che nasce a partire da alcune attività neurali, possiamo pensare che essa è una proprietà emergente del cervello. Una proprietà emergente di un sistema è qualcosa che viene spiegato causalmente dal comportamento degli elementi del sistema, ma non è una proprietà di qualsiasi elemento individuale e non può essere spiegata semplicemente come la somma delle proprietà di quegli elementi. «Definisco la mia posizione naturalismo biologico, perché fornisce una spiegazione naturalistica al problema mente-corpo tradizionale mettendo in rilievo il carattere biologico degli stati mentali ed evitando tanto il materialismo quanto il dualismo». La posizione di Searle si basa su quattro tesi fondamentali: la prima è che gli stati coscienti che hanno, come detto, un’ontologia soggettiva in prima persona, sono fenomeni reali del mondo e, in quanto tali, non possono essere eliminati semplicemente tramite una riduzione che tende ad identificarli con stati fisici; in secondo luogo, gli stati coscienti ed i fenomeni mentali, sono interamente frutto di processi neurobiologici del cervello, ovvero, sono completamente riducibili a processi neurobiologici; come terzo punto egli afferma che: «gli stati coscienti sono realizzati nel cervello quali caratteristiche del sistema cerebrale, e dunque esistono ad un livello più alto di quello dei neuroni e delle sinapsi. I singoli neuroni non sono coscienti, ad essere coscienti sono parti del sistema cerebrale costituito da neuroni»; inoltre, e questo è il quarto ed ultimo punto, dato che gli stati coscienti sono reali essi hanno una reale efficacia causale. Per concludere possiamo dire che i fenomeni mentali sono fenomeni reali che non possiamo eliminare appellandoci semplicemente al principio di oggettività scientifica e descrittiva, né possiamo definire esclusivamente in termini fisici e materiali.
Assodato che tutti i nostri processi mentali sono il frutto di processi neurobiologici che avvengono nel cervello e nel resto del sistema nervoso, dimostrato, inoltre, che hanno efficacia causale e che la loro ontologia è in prima persona, la domanda che dobbiamo porci è: perché questa soluzione apparentemente ovvia trova una così forte resistenza da parte del mondo accademico?
Molti filosofi non vedono come le entità mentali possano esistere ed essere causate dai processi biologici del cervello; per Searle essi compiono, però, un gran numero di errori il primo dei quali riguarda già la distinzione che viene istituita tra il mentale ed il fisico. Si suppone, infatti, che la distinzione tra stati mentali concepiti ingenuamente e stati fisici concepiti ingenuamente sia espressione di una profonda distinzione metafisica, cosa che per Searle non è possibile dato che la coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica. La coscienza è una caratteristica biologica del cervello allo stesso modo in cui la digestione è una caratteristica biologica dell’apparato digerente, non esiste alcuna differenza metafisica. Torniamo, inevitabilmente, a sottolineare che il problema nasce soprattutto a causa della terminologia che utilizziamo, essa introduce termini che nella tradizione sono stati definiti in modo tale da essere mutuamente esclusivi, il mentale viene definito come qualitativo, soggettivo, in prima persone e quindi esplicitamente come un ché di non materiale, mentre, al contrario, il fisico viene definito come non qualitativo, oggettivo, espresso tramite un’ontologia in terza persona e dunque come esclusivamente materiale. Come mostrato già precedentemente, queste definizioni sono inadeguate ad esprimere il fatto che il mondo funziona in modo tale da far si che alcuni processi biologici siano qualitativi ed in prima persona. Le caratteristiche del mentale sono perfettamente compatibili con le caratteristiche che rendono il fisico possibile oggetto delle scienze esatte; il mentale è, infatti, localizzabile nello sazio-tempo, è spiegabile in termini di microfisica ed ha efficacia causale. La mente e gli stati mentali sono localizzati nello spazio del cervello in un certo periodo di tempo, sono spiegabili causalmente mediante processi di livello più basso e sono, infine, in grado di agire causalmente. Non ci sono, dunque, ragioni per cui un sistema fisico quale un organismo umano o animale non debba avere stati soggettivi, qualitativi e intenzionali; oltre al fatto che occorre rivedere l’intera terminologia utilizzata dalle definizioni tradizionali. «La soluzione è quella di non negare alcun fatto ovvio, ma di cambiare le categorie in modo da poter riconoscere che la coscienza è, allo stesso tempo, completamente materiale ed irriducibilmente mentale. E ciò significa che dovremmo semplicemente abbandonare le tradizionali categorie di materiale e mentale così come sono state usate nella tradizione cartesiana».
Esistono due tipi di riduzioni, la riduzione causale e la riduzione ontologica. Spesso, nella storia della scienza, si è effettuata una riduzione ontologica sulla base di una riduzione causale o in nome di una riduzione causale. Di fronte alla coscienza, però, possiamo compiere una riduzione causale ma non siamo autorizzati a compiere una riduzione ontologica se non vogliamo venire meno alle ragioni per cui utilizziamo il concetto stesso di coscienza. La coscienza può essere spiegata interamente tramite l’attività dei neuroni ma questo non dimostra che non sia altro che attività dei neuroni, che non sia altro oltre a ciò che si può valutare esclusivamente da un punto di vista fisico. Lo scopo principale per cui utilizziamo il concetto di coscienza è, infatti, quello di cogliere le caratteristiche soggettive, in prima persona, del fenomeno e questo obiettivo viene meno se ridefiniamo la coscienza in termini oggettivi, in terza persona. «La coscienza è un fenomeno interno, soggettivo, di prima persona e qualitativo. Ogni descrizione della coscienza che lasci fuori queste caratteristiche non è una descrizione della coscienza, ma di qualcos’altro». Utilizzando il concetto di coscienza ci rendiamo subito conto della presenza di un’asimmetria; ovvero, se per definire la coscienza eliminassimo l’ontologia in prima persona e ridefinissimo le parole che la esprimono in termini di terza persona, allora verrebbe meno perfino lo scopo per cui utilizziamo gli stessi concetti relativi alla coscienza, nonché la coscienza stessa. L’irriducibilità della coscienza rivela la presenza di una profonda asimmetria nelle nostre usuali pratiche definitorie.
Le riduzioni eliminative mostrano che il fenomeno indagato in realtà non esiste. Le riduzioni eliminative si basano sulla distinzione tra apparenza e realtà, ma non possiamo dimostrare che l’esistenza stessa della coscienza è un’illusione, perché nel campo della coscienza l’apparenza è la realtà. Io posso avere l’illusione che il sole stia tramontando dietro le montagne quando in realtà le cose non stanno così; ma non posso allo stesso modo avere l’illusione della coscienza se non sono cosciente. L’illusione della coscienza è identica alla coscienza stessa».
In definitiva, non si può eliminare per riduzione la coscienza, perché la coscienza è una realtà e la sua esistenza reale non è soggetta ai consueti dubbi epistemici; tali dubbi, infatti, si basano sulla distinzione tra apparenza e realtà mentre riguardo all’esistenza stessa di stati coscienti la distinzione tra apparenza e realtà non è possibile. È possibile una riduzione causale della coscienza al suo sostrato neuronale, ma ciò non conduce ad una riduzione ontologica, perché la coscienza ha un’ontologia in prima persona e si verrebbe meno alla ragione per cui il concetto è stato introdotto se lo si ridefinisse in termini di terza persona.
Entrambe le posizioni che cercano di rispondere al problema mente-corpo dicono qualcosa di vero. Il materialismo afferma che l’universo, nella sua interezza, è composto di particelle fisiche esistenti in campi di forza e spesso organizzate in sistemi, e in questo sostiene il vero, ma da ciò si sente autorizzato a trarre la conclusione erronea che non esistono fenomeni mentali ontologicamente irriducibili; il dualismo, da parte sua, cerca di dire che i fenomeni mentali esistono, e in ciò ha ragione, ma ne deduce erroneamente che tali fenomeni sono qualcosa di separato dal mondo fisico ordinario, qualcosa che va al di là del loro sostrato fisico. Searle conserva la parte vera di ciascuna delle due posizioni, ma nega gli errori che entrambe commettono; se si rimane attaccati al vocabolario tradizionale ciò sembra impossibile. I poteri causali della coscienza e quelli della sua base neurobiologica sono esattamente gli stessi e ciò mostra che non sono due cose diverse, non sono due entità diverse ma è solo lo stesso sistema descritto a livelli diversi. La coscienza si distingue dalla solidità, dalla liquidità e dalle altre caratteristiche del mondo fisico per il semplice fatto che la sua riduzione causale non porta ad una sua riduzione ontologica, e questo perché la coscienza ha un’ontologia in prima persona mentre i processi neurali ne hanno una in terza persona.
La coscienza è dunque un aspetto del cervello ed è un aspetto costituito all’interno dell’esperienza ontologicamente soggettiva. Ciò non significa affermare che ci sono due differenti regni metafisici all’interno del nostro cranio, uno fisico e l’altro mentale; ci sono soltanto processi che avvengono nel cervello e di questi alcuni sono esperienze coscienti.
Ora iniziamo con il presentare le proprietà strutturali che caratterizzano la coscienza nella vita quotidiana; ed iniziamo proprio ad affermare che la coscienza umana si manifesta in un numero strettamente limitato di modalità: accanto ai cinque sensi, e al senso dell’equilibrio, vanno ricordate le sensazioni corporee e il flusso del pensiero. Altra fondamentale caratteristica della coscienza è la sua unità, gli stati coscienti si manifestano a noi come segmenti di una sequenza unitaria. Inoltre la coscienza è intenzionale, in generale ogni stato cosciente è diretto a qualcosa.
Le nostre esperienze coscienti, diversamente dagli oggetti cui si riferiscono, hanno sempre un punto di vista e quindi una prospettiva. Il fatto che le esperienze coscienti siano per loro natura dotate di prospettiva ci ricorda che l’intenzionalità è aspettuale: vedere un oggetto da un certo punto di vista significa vederlo sotto certi aspetti e non altri, il vedere è sempre un “vedere come”. Discutere dell’intenzionalità della coscienza ci porta inevitabilmente ad affermare l’esistenza di un sentimento soggettivo legato ad ogni stato cosciente; «gli stati coscienti esistono solo in quanto c’è un soggetto umano o animale che ne ha esperienza. Hanno un tipo di soggettività che chiamiamo soggettività ontologica».
La coscienza è per sua propria essenza qualitativa, soggettiva e unificata; «la nostra esperienza cosciente non ci si presenta come un guazzabuglio disorganizzato: ci si presenta, invece, di norma, nella forma di strutture ben definite e a volte anche precise». Dunque, le esperienze coscienti sono caratterizzate da una struttura figura-sfondo, a ciò si collega il fatto che le nostre percezioni sono sempre dotate di una costituzione definita, e lungi dal limitarsi a semplici forme indifferenziate, sono, invece, sempre organizzate in oggetti e proprietà di oggetti. Normalmente, quindi, vedere è sempre un “vedere come”. «La struttura gestaltica della coscienza, dunque, presenta almeno due aspetti. Il primo è la capacità del cervello di organizzare le percezioni in totalità coerenti; il secondo la capacità del cervello di discriminare tra figura e sfondo». Inoltre, nel campo della coscienza e dei fenomeni che la riguardano, è necessario distinguere tra ciò che si pone al centro dell’attenzione e ciò che, al contrario, ne occupa la periferia.
Abbiamo brevemente mostrato i cardini delle opinioni di Searle sulla coscienza: la qualitatività, la soggettività e l’unità dell’esperienza cosciente e della coscienza in quanto tale si uniscono indissolubilmente alla sua intenzionalità, a quella che abbiamo definito differenza tra centro e periferia, e alle conoscenze base della psicologia. «Il modo di esistenza degli stati coscienti è dunque ontologicamente soggettivo, ma la soggettività ontologica del oggetto di studi non preclude la possibilità di una scienza epistemicamente oggettiva che lo studi». La coscienza è l’essenza stessa della nostra esistenza dotata di significato e le verità che riguardano la coscienza sono verità che riguardano la vita di ogni individuo.

L'intelligenza artificiale e la stanza cinese
«La filosofia non può eludere la questione posta in essere dai teorici dell’IA, perché ne va dell’uomo stesso, del suo posto e del suo destino nel mondo».
Secondo la concezione dell’intelligenza artificiale debole il pregio principale del calcolatore come strumento per lo studio della mente, sta nel fatto che esso ci fornisce un congegno potentissimo, ci permette, ad esempio, di formulare e verificare le ipotesi in un modo più preciso, più rigoroso e più veloce di una valutazione fatta con il solo ausilio dell’intelligenza umana. Secondo l’intelligenza artificiale forte, invece, il calcolatore non è semplicemente uno strumento che può aiutarci nello studio della mente, me è, piuttosto e se programmato opportunamente, una vera e propria mente; per l’intelligenza artificiale forte si può in altre parole affermare che i calcolatori, una volta corredati da programmi giusti, letteralmente capiscono e posseggono stati cognitivi.
Per mostrare cosa si intende per intelligenza artificiale sono costretto ad introdurre il concetto della macchina di Turing. Una macchina di Turing è un congegno che esegue calcoli utilizzando solo due tipi di simboli, di solito si parla di zero e di uno, di vero e di falso, ma una qualsiasi coppia di numeri o simboli andrebbe bene. La macchina, nella sua forma idealizzata, è costituita da un nastro infinito su cui possono essere scritti i simboli e da un cursore che legge i simboli sul nastro. Il cursore ha solo quattro possibili movimenti, può muoversi a destra e a sinistra, cancellare uno zero e stampare un uno o cancellare un uno e stampare uno zero. Ogni problema che ha una soluzione algoritmica può essere risolto da una macchina di Turing, in sostanza qualsiasi problema enunciato in forma algoritmica ha una soluzione se una macchina di Turing è in grado di risolverlo.
Possiamo aggirare e sorvolare su tutti i grandi e annosi dibattiti semplicemente chiedendoci se la macchina di Turing, o meglio, se un qualsiasi calcolatore elettronico possa comportarsi in modo tale che un esperto non riesca a distinguere il suo comportamento dal comportamento umano. Ogni sistema complesso può essere descritto in diversi modi, ha una formulazione che presenta diverse variabili; tale variabilità di possibilità descrittive ci viene presentata tramite la metafora dei livelli: concepiamo il microlivello delle molecole come un livello di descrizione più basso a cui seguono il livello della struttura microfisica e quello delle parti componenti, ovvero livelli di descrizione più alti e così via in senso crescente; ad un livello basso di descrizione, ad esempio, due computer potrebbero essere del tutto diversi, ma ad un livello di descrizione più alto è possibile che implementino esattamente lo stesso algoritmo.
La nozione di livelli di descrizione diversi contiene già implicitamente un’altra nozione di fondamentale importanza nella definizione delle basi che fanno da sfondo alla teoria computazionale della mente, quella di realizzabilità multipla: una caratteristica di livello più alto può essere realizzata fisicamente da sistemi diversi; proprio come lo stesso programma può essere implementato da tipi diversi di hardware, e dunque si dice realizzabile in maniera multipla, così lo stesso stato mentale potrebbe essere implementato da generi diversi di hardware e dunque essere realizzabile in maniera multipla. Tutta questa strategia consente alle ricerche sull’intelligenza artificiale di frammentare i grandi problemi complessi in piccoli problemi semplici. Il fascino dell’idea di macchina di Turing è che ad un livello più basso tutti i problemi si riducono a semplici manipolazioni di zero e di uno. L’idea di scomposizione ricorsiva, allora, offre uno strumento importante nelle ricerche che guardano alla conoscenza della mente umana, le funzioni intelligenti complesse degli esseri umani risultano, alla fine, scomponibili ricorsivamente in funzioni semplici permettendo così un’agevole soluzione.
Le teorie della mente più autorevoli e dominanti negli ultimi decenni del ventesimo secolo sostenevano, ed in parte ancora sostengono, che il cervello dell’uomo è un computer digitale, con tutta probabilità esso è una macchina di Turing universale; come tale esegue algoritmi implementando programmi e, in sostanza, ciò che chiamiamo mente è un programma o un insieme di programmi. Per i sostenitori di queste teorie, per comprendere le capacità cognitive dell’uomo sarebbe solamente necessario scoprire quali programmi gli esseri umani di fatto implementano quando attivano capacità percettive come la ricezione, la memoria, la fantasia e tante altre. Dato che il livello di descrizione relativo ai fenomeni mentali corrisponde al livello di descrizione che presentano i programmi, non avremmo allora alcun bisogno di capire nei dettagli come funziona il cervello per avere una comprensione della cognizione umana.
Gli stati mentali sono realizzabili in maniera multipla in diversi tipi di strutture fisiche che casualmente si trovano ad essere implementate nel cervello ma che potrebbero essere ugualmente implementate in una gamma indefinita di hardware per calcolatori. Qualsiasi implementazione hardware, allora, andrebbe bene per la mente umana, purché sufficientemente stabile e complessa da permettere l’esecuzione dei programmi. In poche parole, da questo punto di vista, per stabilire se abbiamo inventato realmente una macchina intelligente, dovremmo soltanto affidare il nostro giudizio al verdetto del test di Turing.
È in questo contesto che Searle introduce l'esempio della stanza cinese per evidenziare come il programma che guida le macchine di Schank, ovvero quelle mecchine che secondo i teorici dell'intelligenza artificiale forte forniscono la prova secondo cui anche un ammasso di circuiti possa eleborare sistemi cognitivi, sono in realtà soltanto operazioni algoritmiche che non hanno alcun collegamento con il pensiero umano e con l'elaborazione di enunciati significativi.
Quando una macchina di Schank deve rispondere con un output ad un determinato input si basa su di una rappresentazione del corredo di informazioni simile a quello posseduto dagli esseri umani, corredo che naturalkmente le è fornito dal suo programmatore. Dopo aver fornito alla macchina la storia e dopo averle posto domande su la stessa, la macchina mette in moto un programma che le consente di stampare risposte dello stesso tenore di quelle che attendiamo di ricevere da ascoltatori umani nel caso in cui gli si raccontassero storie simili. I fautori della versione forte dell’intelligenza artificiale sostengono, non solo che in questa successione di domande e risposte la macchina simula una capacità finora ritenuta esclusivamente umana, ma affermano anche che la macchina, nel vero senso del termine, capisce la storia e dando le risposte alle domande, mostra come l’attività di un programma possa spiegare in cosa consiste la capacità umana di capire storie e di rispondere a domande su di esse.
Searle nota però che un simile approccio mostra qualche cosa di errato già a partire dalla nozione di informazione che pone come base per le successive delucidazioni: «la nozione di elaborazione delle informazioni adottata dalle scienze cognitive è in sintesi troppo astratta per catturare la concreta realtà biologica dell’intenzionalità intrinseca: le informazioni elaborate dal cervello sono sempre relative ad una specifica modalità, sia essa la visione, l’udito o il tatto, mentre i modelli computazionali dei processi cognitivi non fanno che produrre, in base a determinati insiemi di simboli di input, altrettanti insiemi di simboli di output».
L'argomento della stanza cinese, che Searle inizia ad elaborare già a partire dagli anni ottanta del novecento, sostiene che: «un calcolatore – potrei essere io stesso – sarebbe in grado di effettuare tutti i passi di un programma che simuli una qualche capacità mentale come la comprensione del cinese senza capire una sola parola di quella lingua. L’argomentazione poggia su di una semplice verità logica: sintassi e semantica non si equivalgono, e la sintassi di per sé non è sufficiente a costituire la semantica».
Secondo Searle possiamo provare a fare lo stesso esperimento con un uomo, chiudendolo in una stanza e aspettando che risponda alle informazioni che gli vengono fornite dall'esterno. Un primo foglio conterrà le informazioni che chiamiamo scrittura, ovvero il modo tramite cui accostare gli ideogrammi cinesi per far si che comunichino qualche cosa; un secondo conterrà informazioni che definiamo storia ed, infine, un terzo foglio conterrà le domande; inoltre chiamiamo risposte alle domande i simboli che l’uomo produce come risposta ai contenuti presenti nel terzo foglio e definiamo programma l’insieme delle regole date nella lingua madre dell’uomo. L’insieme di questo materiale, nel nostro esperimento ipotetico, sarebbe fornita da un equipe di ricercatori che valutano l’andamento della prova da una posizione esterna alla stanza.
Ora immaginiamo che questa equipe di ricercatori fornisca, accanto alle storie scritte in cinese, anche delle storie scritte nella madrelingua dell’individuo chiuso nella stanza e che ponga domande anche su queste consentendogli così di rispondere nella sua lingua naturale.
Da un punto di vista esterno, ovvero per coloro che si trovano al di fuori di un simile sistema e che si occupano soltanto di leggere le risposte che provengono dalla stanza, le risposte alle domande in cinese e alle domande poste nella madrelingua dell’individuo risultano altrettanto buone e convincenti. Ma, e questo è il punto che Searle vuole evidenziare, nel caso del cinese, a differenza di ciò che avviene quando si discute nella lingua natale dell’individuo, l’uomo risponde semplicemente manipolando simboli formali non interpretati; per quanto riguarda il cinese, quindi, l’uomo si comporta né più né meno che come un calcolatore, esegue, cioè, soltanto operazioni di calcolo su elementi specificati per via formale. Per quanto riguarda il cinese, l’uomo è semplicemente un’istanziazione del programma di un calcolatore.
A questo punto possiamo mostrare quella che è la base di partenza per chiunque abbracci una concezione vicina alla visione forte dell’intelligenza artificiale; per questi teorici, un calcolatore, se programmato nel giusto modo, capisce realmente le storie, e dunque è in questo programma specifico che essi individuano la capacità di comprendere dell’uomo; in altri termini, sarebbe solo un programma ciò che può mostrarci in cosa consiste la reale capacità di comprendere degli esseri umani. «Alla base del modello computazionato della mente sta l’idea secondo cui la mente e il cervello sono rispettivamente il programma e l’hardware di un sistema computazionale. Come recita uno slogan assai diffuso: la mente sta al cervello come il programma sta all’hardware». Ma alla fine del processo comunque l’uomo non capirà nulla delle risposte che egli dà in cinese. Per le stesse ragioni, il calcolatore di Schank non capisce nulla né delle storie in cinese né delle storie fornitegli in una qualsiasi altra lingua, poiché nel caso del cinese, ovvero nel nostro caso, il calcolatore è l’individuo chiuso nella stanza e anche se il calcolatore non fosse l’uomo del nostro esempio comunque non avrebbe nulla più di ciò che ha un uomo quando si trova nella condizione di non capire nulla. Il calcolatore ed il suo programma non forniscono, quindi, le condizioni sufficienti per il comprendere; essi funzionano soltanto senza che ci sia alcun tipo di comprensione.
Quali che siano i principi puramente formali introdotti nel calcolatore, essi non saranno mai sufficienti per il comprendere perché, anche un essere umano, sarà capace di seguire quei principi formali senza per questo capire nulla. Dunque, «il pensiero cosciente è qualcosa di altro rispetto ad un programma di calcolatore. Il computer opera manipolando simboli. Le sue operazioni sono definite in maniera puramente sintattica, mentre la mente umana dispone di qualcosa di più di simboli non interpretati: ai simboli assegna un significato». Inoltre, riprendendo ancora Searle «il senso in cui c’è computazione in una macchina è il senso in cui c’è informazione in un libro. C’è senz’altro, ma è relativa all’osservatore e non intrinseca. Per questa ragione non si può scoprire che il cervello è un computer digitale, dato che la computazione non viene scoperta in natura, ma viene attribuita». Un programma, per quanto complesso esso sia o possa essere, non opera alcun processo di significazione semantica.
L’uomo è capace di capire non perché e simile ad un’istanziazione di un programma per calcolatore, ma perché è un determinato genere di organismo, con una certa e speciale struttura biologica, che risulta causalmente capace di produrre, date certe condizioni, percezione, azione, comprensione, apprendimento ed altri fenomeni mentali. Solo un organismo con questi poteri causali può essere provvisto di intenzionalità e di coscienza. Nessun modello puramente formale, per quanto lo si voglia immaginare evoluto, sarà mai sufficiente a generare di per sé fenomeni come l’intenzionalità o la comprensione, perché le proprietà formali non costituiscono intrinsecamente tali fenomeni e non hanno in sé poteri causali oltre a quello di produrre un determinato output come risposta ad un certo input, ed inoltre, questo stesso e minimo potere causale è qualcosa che non attribuisce significato all’output prodotto ma lo presenta sempre espresso in maniera formalizzata. Le elaborazioni di simboli formali non racchiudono alcuna intenzionalità in quanto assolutamente prive di senso; esse, come dice Searle, hanno una sintassi ma non hanno una semantica; tutto ciò per dire che l’intenzionalità che attribuiamo ai calcolatori è tale solo nella mente di chi li programma e di chi li usa, di chi fornisce l’ingresso e il programma e di chi ne interpreta le uscite.
L’assunto di base della versione forte dell’intelligenza artificiale, ovvero la mente sta al cervello come il programma sta all’hardware, fa, secondo Searle, acqua da parecchi punti: la distinzione fatta tra programma e sua realizzazione ha per conseguenza che uno stesso programma potrebbe avere una quantità di realizzazioni diverse, tutte prive di qualunque tipo di intenzionalità; inoltre un programma è un che di puramente formale mentre gli stati intenzionali non sono per niente formali o formalizzabili ma sono definibili unicamente in base al loro contenuto; in fine possiamo dire che gli stati e gli eventi mentali sono letteralmente un prodotto del cervello mentre un programma non è il prodotto di un calcolatore.
Un calcolatore non compie un’elaborazione delle informazioni nello stesso senso di quella che compiono le persone quando, ad esempio, riflettono o leggono; quella del calcolatore è solo un’elaborazione di simboli formali. Dunque, «un sistema che si limita a manipolare simboli fisici secondo regole che tengono conto della struttura sarà al massimo una vuota parodia dell’autentica intelligenza cosciente, poiché è impossibile dar vita ad una “vera semantica” macinando semplicemente una “vuota sintassi”».
È e sarà sempre compito degli interpreti esterni, ovvero di coloro che osservano dall’esterno l’intero processo, interpretare l’ingresso e l’uscita come informazioni nel senso ordinario. Il fulcro dell’argomentazione di Searle è che «la sintassi non è intrinseca alla fisica: l’attribuzione di proprietà sintattiche è sempre relativa ad un agente o ad un osservatore che interpreta sintatticamente determinati fenomeni fisici».
Concludiamo dicendo che l’intelligenza artificiale nella sua versione forte ha senso solo a partire dall’assunto dualistico che dove si tratta di mente il cervello non ha importanza.
Il programma dell’intelligenza artificiale forte, di riprodurre e spiegare i fenomeni mentali soltanto costruendo dei programmi, è inattuabile a meno che la mente non sia realmente indipendente dal funzionamento del cervello, non solo concettualmente ma anche empiricamente come avviene nel caso del programma e della sua realizzazione su di un hardware.
Qualunque cosa sia ciò che il cervello fa quando produce stati mentali come l’intenzionalità, essa non può consistere nell’istanziare un programma, dato che nessun programma di per sé è sufficiente a produrre intenzionalità. «La mente non potrebbe essere soltanto un programma per computer perché i simboli formali di un programma non sono di per sé stessi sufficienti a garantire la presenza del contenuto semantico che si trova nelle menti reali». «La semplice manipolazione di simboli formali non è di per sé e in sé costitutiva dell’avere contenuto semantico. Non ha importanza fino a che punto il sistema riesce ad imitare il comportamento di qualcuno che comprende veramente, né ha importanza quanto complessa possa essere la manipolazione di simboli; non è possibile scindere la semantica dai processi sintattici».


Intenzionalità e società
É proprio a partire dal fenomeno dell’intenzionalità, sia essa intrinseca o derivata, individuale o collettiva, che si può chiarire sia il modo che l’uomo utilizza per mettersi in relazione con l’ambiente circostante, sia il processo progressivo e inarrestabile della cosiddetta attribuzione di funzione di status che è la colonna portante per la creazione della realtà sociale.
Il ruolo primario della mente, considerando anche il punto di vista sociale, è quello di metterci in relazione con l’ambiente e con le altre persone. La coscienza e le altre caratteristiche della mente, come ad esempio l’intenzionalità, hanno la capacità di mettere un individuo nelle condizioni di avere una relazione con la realtà che lo circonda. Intenzionalità è il termine che si utilizza per indicare tutte le varie forme tramite le quali la mente di un individuo può dirigersi, riguardare o appartenere agli oggetti e agli stati di cose nel mondo.
Coscienza ed intenzionalità sono strettamente collegate ed «il problema dell’intenzionalità è in qualche modo un’immagine speculare del problema della coscienza. Proprio come si ritiene che sia estremamente difficile riuscire a comprendere come semplici frammenti all’interno del cranio possano essere coscienti, o possano creare la coscienza mediante le loro interazioni, così è difficile immaginare come semplici frammenti di materia all’interno del cranio possano riferirsi a, o vertere su, qualcosa nel mondo al di là di sé stessi, o possano creare tale riferimento mediante la loro interazione».
Searle tende ad una naturalizzazione dell’intenzionalità che la presenti come fenomeno biologico, sulla scia dell’indagine condotta sulla coscienza e sui restanti stati mentali.
Per la chiarificazione di un concetto così complesso come quello di coscienza o intenzionalità bisogna fare appello al soggetto senziente e non sottovalutare l’apparato naturale che gli consente di indirizzare il suo pensiero e le sue azioni verso stati di cose altri da lui e verso persone che sono come lui.
L’intenzionalità si presenta in varie forme, dobbiamo dunque distinguere l’intenzionalità che gli esseri umani ed alcuni animali hanno come loro proprietà e caratteristica intrinseca, da quel tipo di intenzionalità che contraddistingue ad esempio le parole, le frasi, le immagini, i diagrammi, le mappe e i grafici, che definiamo intenzionalità derivata. Inoltre, dobbiamo distinguere l’intenzionalità intrinseca e quella derivata dalle attribuzioni metaforiche di intenzionalità, queste non dicono letteralmente nulla sull’intenzionalità e vengono presentate in questo contesto solamente perché è come se avessero intenzionalità. Riguardo all’intenzionalità intrinseca, che possiamo considerare la vera forma di intenzionalità, possiamo dire che essa viene attribuita soltanto agli individui, questi nel momento in cui dirigono il loro pensiero verso qualcosa del mondo reale e sociale sono portatori di stati intenzionali, indipendentemente da quanto qualsiasi altra persona può pensare a riguardo. L’intenzionalità derivata potrebbe essere definita come una sottoclasse dell’intenzionalità, essa deriva sempre dell’intenzionalità intrinseca, ovvero è sempre riferibile all’intenzionalità intrinseca del soggetto senziente, il quale nel momento in cui si riferisce ad un’entità che sia altro da lui può attribuirle un’intenzionalità derivata e così consentire alla cosa stessa di riferirsi ad altro rispetto a sé. Il significato relativo ad un’entità con intenzionalità derivata, ad esempio una frase o una parola, non è intrinseco all’entità stessa, ma riguarda sempre l’agente che possiede la capacita di riferirsi, consciamente o inconsciamente, al mondo esterno e che cosi costituisce la relazione chiamata intenzionalità. Il terzo tipo di intenzionalità, quello che si riferisce ad un’entità come se questa avesse intenzionalità, mentre in realtà non ne ha, è metaforico; affermare che un’entità ha un’intenzionalità di questo tipo è solo un modo per dire che essa si comporta come se avesse intenzionalità, come se essa autonomamente trasportasse e fosse realmente tramite di informazioni.
La distinzione tra intenzionalità intrinseca e derivata è un caso speciale della distinzione, che ci interesserà maggiormente in futuro, tra le caratteristiche del mondo che sono indipendenti dall’osservatore, come la forza, la massa, l’attrazione gravitazionale e le caratteristiche che sono dipendenti dall’osservatore, come l’essere una parola o una frase. L’intenzionalità intrinseca è sempre indipendente dall’osservatore mentre l’intenzionalità derivata dipende sempre dall’attribuzione di intenzionalità che proviene sempre dall’attività di uno o più osservatori.
Come mostrato nei riguardi della coscienza, anche l’intenzionalità è un fenomeno assolutamente biologico. L’intenzionalità è una caratteristica biologica del mondo reale, è una caratteristica indipendente dall’osservatore e per questo una qualsiasi definizione del mondo data nei termini delle scienze esatte non può escludere i fenomeni mentali di cui stiamo parlando. Come per la coscienza, che alla fine risulta un fenomeno con ontologia in prima persona prodotto dalla relazioni di entità definibili con un’ontologia di terza persona, così anche nel caso dell’intenzionalità possiamo dire che essa è il risultato dell’interazione che avviene tra i neuroni all’interno del nostro cranio; possiamo inoltre aggiungere che, la descrizione fatta a livello dei neuroni si riferisce esattamente allo stesso fenomeno di cui parla la descrizione dell’intenzionalità che si dà a partire da un livello più alto, ovvero, la descrizione dei fenomeni mentali che avvengono ad un soggetto determinato e che quindi sono provvisti di una descrizione fenomenica e soggettiva.
La struttura che contraddistingue gli stati intenzionali:
  1. Gli stati intenzionali hanno condizioni di soddisfazione, ovvero possono realizzare un maggiore o minore grado di adattamento tra l’intenzione e la realtà concreta.
  2. Gli stati intenzionali hanno una struttura analoga a quella degli atti linguistici. Gli stati intenzionali sono sempre costituiti da un contenuto proposizionale che si presenta in un determinato tipo o modo di stato psicologico, «si può abbastanza plausibilmente concepire che lo stato consista di un modo psicologico, come la credenza o il desiderio, con un contenuto proposizionale». Il contenuto intenzionale si presenta in forma di credenze, di desideri, di paure, di intenzioni. Indicando con “S” il tipo di stato psicologico e con “p” il contenuto proposizionale, la classica forma di uno stato intenzionale è “Sp”; questa distinzione è fondamentale perché ci consente sia di differenziare i vari modi psicologici in cui può presentarsi lo stesso contenuto, sia di procedere ad un’analisi dello stato intenzionale in riferimento alle sue condizioni di soddisfazione.
  3. Gli stati intenzionali presentano delle direzioni di adattamento. Ci sono casi di direzione di adattamento mente-a-mondo, ad esempio credenze e ipotesi sono vere o false a seconda del grado in cui il mondo le rispecchia o meno; e casi di adattamento mondo-a-mente in cui, come per i desideri, non è la mente a doversi adattare ad un mondo, che anzi esiste indipendentemente, ma è il mondo che deve essere modificato per coincidere con il contenuto intenzionale. Possiamo dire che nel caso di adattamento mente-a-mondo è la mente che si dirige verso una realtà esistente di per sé, è cioè una responsabilità della credenza, ad esempio, adattarsi al mondo dato; mentre nel caso di stati intenzionali con direzione di adattamento mondo-a-mente la responsabilità di far coincidere stato mentale intenzionale e mondo non è più nelle mani della mente ma dipende unicamente dal mondo e dai suoi potenziali cambiamenti.
La vera chiave di volta di questo fenomeno, così familiare eppure così complesso, risiede quasi interamente nel concetto di condizione di soddisfazione. La condizione di soddisfazione è l’unico modo tramite il quale possiamo considerare il grado di soddisfazione di uno stato intenzionale; ovvero, uno stato intenzionale è soddisfatto o meno a seconda di quanto il mondo si rivela essere effettivamente ciò che è rappresentato dallo stato intenzionale. «Ogni volta che abbiamo uno stato intenzionale con direzione di adattamento non-nulla, l’adattamento può essere raggiunto oppure no: la credenza sarà vera, il desiderio appagato, l’intenzione messa in atto oppure no, a seconda dei casi. Se ciò avviene, possiamo dire che la credenza, il desiderio, o l’intenzione sono soddisfatti». Dunque, per semplificare, possiamo pensare a tutti gli stati intenzionali che hanno una proposizione come loro contenuto come a rappresentazioni delle loro condizioni di soddisfazione.
Quando usiamo il termine di causazione intenzionale vogliamo riferirci alla presenza, all’interno di ogni stato intenzionale, di una componente causale che si aggiunge a quella intenzionale. Le nostre menti sono sempre in costante rapporto con il mondo e dunque, risulta essenziale per la nostra sopravvivenza il fatto che la capacità di rappresentazione che ha acquisito la mente nel corso dei secoli e le relazioni causali che essa istituisce con il mondo, siano tra loro connesse in maniera sistematica. Quando chiamiamo in campo la causazione intenzionale ci riferiamo a quegli eventi in cui causa ed effetto sono rappresentazioni reciproche, o la causa è rappresentazione dell’effetto o, viceversa, l’effetto è rappresentazione della causa.
È parte della nozione di condizione di soddisfazione il fatto che lo stato intenzionale sia soddisfatto solo se funziona cusalmente; simili stati sono causalmente autoreferenziali, ovvero, in essi l’intenzione è soddisfatta soltanto se essa causa anche le altre condizioni di soddisfazione.
«La causazione intenzionale è una qualsiasi relazione causale tra uno stato intenzionale e le sue condizioni di soddisfazione, dove lo stato intenzionale causa le sue condizioni di soddisfazione o le sue condizioni di soddisfazione causano lo stato intenzionale». Le spiegazioni del comportamento umano impiegano essenzialmente l’apparato della causazione intenzionale.
Per quanto, invece, riguarda il concetto di “sfondo” Searle afferma: «possiamo pensare che la totalità degli stati intenzionali di una persona formi una complessa rete interattiva», dunque: «se si seguono i vari fili della rete, si arriva a un certo punto ad un insieme di abilità, modi di entrare in contatto con il mondo, disposizioni, e in generale capacità, che normalmente io chiamo lo “sfondo [background]”». Tutti i nostri stati intenzionali, tutte le nostre particolari credenze, speranze, paure e così via, funzionano nel modo in cui funzionano solamente sulla base di uno sfondo di conoscenze che permette all’uomo di relazionarsi con il mondo. Lo sfondo è pre-intenzionale, costituisce, dunque, il presupposto di qualsiasi nostra relazione con il mondo.
Tutti i processi naturali del cervello possiedono, ad un certo livello, proprietà logiche semantiche; in poche parole, gli stati cerebrali hanno un insieme di relazioni logiche e queste fanno parte del comportamento biologico dell’organismo consentendo al singolo uomo di attribuire significati alle sue esperienze anche se questa attribuzione è soltanto frutto della biologia ingenua che governa la vita dell’individuo stesso.
La situazione diventa più complessa quando Searle accosta all'intenzionalità individuale anche l'intenzionalità collettiva. «Molte specie di animali, la nostra soprattutto, hanno una predisposizione per l’intenzionalità collettiva. Con ciò intendo non solo che esse si impegnano in un comportamento cooperativo, ma che condividano stati intenzionali come credenze, desideri, intenzioni. Oltre all’intenzionalità individuale vi è anche un’intenzionalità collettiva». «Nella vita reale l’intenzionalità collettiva è comune, pratica e veramente essenziale per le nostre esistenze»; questi sono quindi concetti che ci aprono la strada alla spiegazione dei fatti istituzionali, così come ci spianano il cammino per la chiarificazione di ciò che intendiamo con società dato che «ogni qualvolta che ci sono due persone che stanno cooperando noi abbiamo un’intenzionalità collettiva; e, anzi, vorrei concludere che questa è il fondamento di tutte le attività sociali».
Un modo di trattare l’intenzionalità collettiva potrebbe essere quello, secondo Searle erroneo perché mal fondato e troppo superficiale, di prendere la descrizione dell’intenzionalità individuale e sostituirla, semplicemente, a tutti i casi in cui compare l’intenzionalità collettiva. Ma l’intenzionalità collettiva è un fenomeno biologicamente primitivo che non può essere ridotto o eliminato in favore di qualcos’altro. Tutta l’intenzionalità umana esiste solo nei cervelli dei singoli individui; sottolineo questo punto perché nel momento in cui ci apprestiamo a sostituire un “noi” con un “io”, nell’analisi dell’intenzionalità, siamo necessariamente obbligati a spiegare in quale singolo cervello esiste, esattamente, l’intenzionalità collettiva.
Altre difficoltà che ci presenta un approccio all’intenzionalità collettiva così superficiale sono: sia che l’intenzionalità individuale può spaziare solo sulle azioni che l’agente è in grado di causare personalmente mentre, spesso, nel comportamento cooperativo c’è un’intenzionalità che va al di là della causazione individuale; sia che molte forme di comportamento collettivo presentano azioni differenti per ogni singolo individuo ma tutte contemporaneamente confluenti in un unico risultato finale, in un unico scopo condiviso.
Una corretta e completa descrizione dell’intenzionalità collettiva dovrà essere, quindi, in grado di rendere conto sia della componente causale individuale, sia delle presupposte credenze relative al comportamento degli altri agenti impegnati in un’azione collettiva. Deve, insomma, essere in grado di distinguere e correlare sia l’azione individuale di un singolo, sia le credenze relative al comportamento degli altri che questo singolo presuppone necessariamente durante un’intenzione collettiva.
Il contenuto preposizionale può rappresentare soltanto elementi che l’agente può o pensa di poter influenzare causalmente; ovvero il contenuto di un qualsiasi atto intenzionale riguarda sempre e soltanto la mente di un singolo individuo e non può presentarsi il caso in cui il contenuto preposizionale dell’azione di un singolo determini il contenuto preposizionale delle azioni dei restanti individui. Inoltre, nell’intenzionalità collettiva, non si può richiedere che ogni intenzionalità individuale sappia qual è l’intenzionalità degli altri partecipanti; bisogna soltanto dare per scontato che tutti devono credere che stanno condividendo un obiettivo collettivo.
La questione profonda da chiarire è: in che modo l’intenzionalità collettiva può muovere i singoli corpi dato che, come abbiamo detto, il contenuto del “noi” non è lo stesso contenuto dell’“io”.
Di solito, nella vita quotidiana, non eseguiamo soltanto azioni semplici, ma facciamo quasi sempre qualcosa col (by way of) o per mezzo del (by means of) compimento di qualcos’altro; quindi la formula logica standard dell’intenzionalità collettiva deve essere integrata con questi due tipi di strutture profonde dell’azione, tipi che Searle chiama relazione causale (per mezzo di, by means of) e relazione costitutiva (con, by way of). Se stiamo cooperando in qualche sforzo di gruppo, in cui i contributi individuali “A” dei singoli causano l’effetto ulteriore “B”, allora abbiamo una relazione causale; mentre, se stiamo cooperando in uno sforzo in cui i contributi individuali costituiscono l’effetto desiderato, allora siamo di fronte ad una relazione costitutiva. In entrambe i casi il singolo individuo non ha alcun riferimento all’intenzionalità o al comportamento degli altri individui partecipi di un’azione collettiva, questo perché egli, in qualunque modo, non potrebbe influenzare a livello causale questi fenomeni, non potrebbe essere la causa delle intenzioni e dei comportamenti degli altri. Nell’intenzionalità collettiva bisogna presupporre che tutti cooperino con ogni singolo agente. Dunque, sia nel caso della relazione causale che nel caso della relazione costitutiva, il contenuto di ogni intenzionalità individuale non fa riferimento al contenuto dell’intenzionalità individuale degli altri partecipanti. Il singolo deve semplicemente credere e dare per scontato che, se fa la sua parte, tutta la collettività, inevitabilmente, farà la sua parte, e ciò perché si sta operando per il raggiungimento di un obiettivo comune. Per poter partecipare ad un’intenzione e alla successiva azione collettiva, l’individuo deve fidarsi e basta.
Riassumendo l’intera questione, l’unica intenzionalità che può esistere è quella presente nelle teste dei singoli individui, ma ciò non significa eliminare l’intenzionalità collettiva, dato che è proprio questa ad agire, come abbiamo mostrato, nelle teste dei singoli; non c’è altra intenzionalità collettiva oltre a quella che è nella testa di ogni membro del gruppo. In sostanza, quando presentiamo un’intenzionalità collettiva, vogliamo dire che un individuo sta agendo singolarmente, ma questo come parte di un gruppo. Ci si può sbagliare sul fatto che gli altri facciano la loro parte, ma questa è una credenza e un presupposto essenziale che va di pari passo con lo sforzo individuale, dove lo sforzo individuale è eseguito come parte di uno sforzo collettivo.
Il fatto biologico di base, ovvero che tutta l’intenzionalità esiste nei singoli cervelli, non implica che il contenuto che esiste nei singoli cervelli non possa esistere in una forma grammaticale al plurale. Ad esempio, nel caso dell’impegno reciproco l’intenzionalità collettiva consiste nella relazione che si istituisce tra l’intenzione individuale che ha il singolo di impegnarsi e la credenza relativa all’intenzione di impegnarsi dell’altro.
L’ntenzionalità collettiva è un primitivo, ma questo ha luogo solo nella testa dei singoli. L’intenzionalità collettiva è del tipo “noi intendiamo” anche se esiste soltanto nella mia testa individuale.
Una caratteristica di fondo delle strutture istituzionali, ad esempio, è che esse per funzionare hanno bisogno del riconoscimento collettivo da parte dei partecipanti alla relazione interindividuale; come avviene tra acquirente e venditore. La creazione delle istituzioni si basa proprio su una simile intenzionalità collettiva; ovvero, per avere cooperazione all’interno di una struttura istituzionale deve esserci un riconoscimento collettivo o un’accettazione generale dell’istituzione, e questo non richiede necessariamente una cooperazione attiva, ma può tranquillamente basarsi su un riconoscimento collettivo che funge da presupposto per qualsiasi ulteriore cooperazione. Dunque, la cooperazione richiede l’intenzionalità collettiva di cooperare, mentre il riconoscimento collettivo non richiede una forma analoga di cooperazione e, quindi, non è necessario che si fondi su un’intenzione collettiva di cooperare. In realtà, il riconoscimento collettivo richiede soltanto che ogni partecipante accetti l’esistenza e la validità di un’istituzione esclusivamente basandosi sulla credenza che vi sia accettazione reciproca anche da parte degli altri. L’esistenza di un’istituzione non richiede cooperazione ma soltanto accettazione e riconoscimento collettivo. «Gli esseri umani dispongono di una notevole abilità che li rende capaci di andare oltre i semplici fatti sociali fino ai fatti istituzionali. Essi si impegnano in qualcosa di più della semplice condivisione di una cooperazione fisica; parlano insieme, possiedono proprietà, si sposano, formano governi e così via». Una simile capacità di riconoscimento reciproco delle istituzioni va di pari passo con la nozione di attribuzione di funzione. Gli esseri umani hanno capacità di imporre funzioni agli oggetti, ed è proprio questa attribuzione di funzioni che crea un nuovo fenomeno relativo all’intenzionalità, sia individuale che collettiva; un fenomeno che Searle ci presenta con il termine di funzione di status. Ad un oggetto sarà imposta una funzione nel momento in cui sarà utilizzato per uno specifico scopo che va al di là della sua semplice costituzione fisica. La funzione non è intrinseca all’oggetto, ma deve essergli assegnata da uno o più agenti esterni». È importante notare che le funzioni sono sempre relative all’intenzionalità. La natura non sa niente di funzioni. La funzione è una cosa che serve ad un determinato scopo, «noi davvero scopriamo funzioni nella natura. Ma la scoperta di una funzione naturale può avere luogo solo all’interno di un insieme di assegnazioni precedenti di valore (che includano scopi, teleologia e altre funzioni)». Gli scopi devono provenire da qualcuno e ciò ci autorizza ad assegnare esclusivamente agli uomini una simile capacità; le funzioni sono solo cause per determinati scopi, e quindi sono sempre relative ad un’intenzionalità reale.
Essendo relative all’intenzionalità, le funzioni sono necessariamente dipendenti dalla mente: «tutte le funzioni sono relative agli osservatori. Le funzioni non sono mai osservatore-indipendenti. La causazione è invece osservatore-indipendente; ciò che la funzione aggiunge alla causazione è la normatività o teleologia. Più precisamente, l’attribuzione di funzione alle relazioni causali pone le relazioni causali all’interno di una teleologia già presupposta». Quando parliamo di funzioni di status, parliamo di quelle funzioni che hanno bisogno di intenzionalità collettiva sia per la loro creazione iniziale che per prolungare la loro esistenza nel tempo. Inoltre, sono funzioni che una persona o un’entità possiede non in virtù della propria struttura fisica, bensì grazie all’imposizione collettiva e al riconoscimento di uno status; «le funzioni non sono mai intrinseche alla fisica di nessun fenomeno, ma sono assegnate dal di fuori da osservatori e utilizzatori coscienti. Le funzioni, in breve, non sono mai intrinseche, ma sono sempre relative all’osservatore». Un’entità ha un certo status e il riconoscimento collettivo di quello status le conferisce il potere di svolgere la sua funzione. Nella creazione dell’ontologia istituzionale umana l’intenzionalità collettiva e l’attribuzione di funzione camminano parallelamente, dato che l’imposizione di funzione si basa sull’intenzionalità collettiva e sul successivo riconoscimento collettivo.
Il test più semplice per verificare se un atto è genuinamente istituzionale è chiedersi se la sua esistenza implica o meno l’esistenza di poteri deontici da esso provenienti e ad esso imputabili; ciò perché è possibile trovarsi di fronte deontologie che non posseggono fatti istituzionali ma è impossibile trovarsi di fronte fatti istituzionali cui non corrisponda una relativa deontologia. La formula generale per la creazione di una funzione di status è: “X vale come Y, nel contesto C”, ed è proprio a partire dall’attribuzione di funzioni di status che possiamo chiarire il processo di creazione e mantenimento dei fatti istituzionali e delle stesse istituzioni. Riguardo questi concetti Searle formula un’asserzione molto forte: «tutto ciò che riguarda la realtà istituzionale può essere spiegato usando esattamente queste tre nozioni: intenzionalità collettiva, attribuzione di funzione e regole costitutive».
Per partire da un caso semplice di istituzionalizzazione, possiamo presentare il caso in cui una determinata entità viene costituita come fatto istituzionale non presupponendo alcuna condizione istituzionale precedente; un determinato oggetto che svolge le sue funzioni in virtù delle sue caratteristiche fisiche evolve in un oggetto che svolge le sue funzioni di status non più in virtù della sua semplice costituzione fisica, ma grazie al riconoscimento e all’accettazione collettiva che le persone coinvolte gli hanno attribuito. Secondo Searle questo slittamento dalla fisica all’accettazione collettiva di una funzione di status, forma la struttura concettuale di base che sta a fondamento della realtà istituzionale umana.
Dunque, la funzione di status è una funzione che viene svolta da uno o più oggetti, da una o più persone o da altri tipi di entità. I fatti istituzionali esistono, per così dire, al di sopra dei fatti fisici bruti e questo perché interviene nella loro costituzione l’attribuzione collettiva di funzione di status.
L’imposizione di fatti istituzionali mostra chiaramente che l’uso del linguaggio, o almeno di una qualche forma di simbolismo, è necessario per qualsiasi fenomeno collettivo di attribuzione di funzione di status che aspiri alla normatività. L’oggetto “X” ottiene un nuovo status, ovvero “Y”, che esiste solo se i partecipanti all’istituzione hanno un linguaggio abbastanza ricco per rappresentarlo. Una determinata entità deve rappresentare per tutti un determinato potere ed una determinata deontologia se vuole avere un valore ed un’intenzionalità collettivi.
È importante notare che «dal momento che le caratteristiche fisiche specificate dal termine “X” sono insufficienti a garantire il successo nel compimento della funzione assegnata, ci deve essere un’accettazione collettiva continuata o il riconoscimento della validità della funzione assegnata; altrimenti essa non può essere svolta con successo».
Una regola regolativa è un atto linguistico diretto e permanente la cui funzione è quella di ottenere una certa forma di comportamento. In generale, le regole regolative hanno una direzione di adattamento verso l’alto o, in altri termini, mondo-a-parole; al contrario, le regole costitutive sono dichiarazioni il cui fine è far sì che una certa entità valga come altro dalla sua semplice forma fisica e diventi portatrice di determinati poteri; nessuno deve far nulla per soddisfare una regola costitutiva, salvo accettarla in quanto tale e nelle sue intrinseche conseguenze.
Quando siamo di fronte a strutture sociali complesse, assistiamo all’iterazione continuata della regola costitutiva, ovvero, la nostra regola “X vale come Y in C” viene ripetuta più volte in modo da creare una ricca rete di funzioni di status tra di loro collegate.
Tutto ciò ci pone di fronte ad un’immensa, varia e molto complessa realtà istituzionale in cui i fatti istituzionali sono sempre legati tra di loro; essi non esistono come fatti isolati ma soltanto all’interno di una complessa rete di relazioni sia tra di loro che con il resto della realtà non istituzionalizzata. La società e molte delle relazioni interindividuali che si stabiliscono tra gli esseri umani che la compongono, sono il frutto dell’intenzionalità collettiva; è solo a partire da questa che si può comprendere la creazione di funzioni di status e della relativa realtà istituzionale.